Cinema

#LaSceltaDiToronto. La vita è bella, di Roberto Benigni

Vincenzo De Divitiis

Il People’s Choice Award del Toronto International Film Festival: 10 vincitori per raccontare le scelte del pubblico nel corso dei 36 anni di storia del TIFF.

Sophia Loren urla dal palco “Robbbeeerto!!” e subito dopo RobertoBenigni per la gioia salta sulle poltrone e quasi cammina sopra le teste dei divi hollywoodiani: è questa una delle scene più famose ed indelebili della storia del nostro cinema. È il 21 Marzo 1999 quando la notte degli Oscar sitinge con i colori della bandiera italiana e celebra il trionfo del regista e attore toscano con la sua opera capolavoro La vita è bella , vincitrice del premio come miglior film straniero, miglior attore e miglior colonna sonora del maestro Nicola Piovani. Una vittoria che proiettò Benigni nell’olimpo del cinema italiano al fianco di altri mostri sacri premiati dall’Academy come Federico Fellini e Vittorio De Sica e diffuse la temporanea e piacevole illusione di un ritorno agli anni d’oro di cui questi ultimi erano tra i massimi esponenti. Speranza ben presto soffocata da una miriade di produzioni di bassa qualità che hanno caratterizzato il cinema di casa nostra sempre più diviso tra commediole volgari e banali e opere pseudointellettuali pretestuose e autoreferenziali.

La vita è bella è un’opera unica nel suo genere per l’abilità che Benigni dimostra nel raccontare un evento così tragico come l’olocausto con toni leggeri, molto vicini alla commedia al punto da ricevere critiche ingiuste e feroci di revisionismo, dissacrazione e negazione della storia. Accuse che fanno ben comprendere come questo film rappresenti un punto di rottura e al tempo stesso una manna dal cielo per quella gran parte di opinione pubblica stanca di sentir parlare delle guerra solo attraverso canonici documentari, il più delle volte di ottima fattura, e dibattiti pregni  di uno sterile citazionismo e luoghi comuni che rendono ogni genere di discorso impersonale e scialbo.

Quella che Benigni porta sullo schermo è una favola, raccontata sia nei suoi lati più spensierati sia in quelli più cupi e drammatici, che nel titolo racchiude un sincero  invito ad apprezzare la vita anche nei momenti in cui la malvagità dell’uomo sembra aver raggiunto il suo picco più alto. Un’operazione che non poté non riscuotere grande apprezzamento tra il pubblico che lo premiò con il People’s  Choice Award  al Toronto International Film Festival del 1998.

Arezzo,1938. Guido Orefice(Roberto Benigni), un giovane di origine ebrea amante della poesia e dal carattere estroverso, si trasferisce nel capoluogo insieme al suo amico Ferruccio (Sergio Bustric) in cerca di lavoro. Le cose sembrano mettersi subito bene per il protagonista con l’impiego come cameriere presso il Grand Hotel dello zio Eliseo e l’incontro con Dora (Nicoletta Braschi), una giovane e timida maestra di scuole elementare, della quale si innamora a prima vista. Dopo una lunga serie di incontri-scontri ed inseguimenti i due riescono a coronare il loro sogno d’amore e costruirsi una famiglia. L’idillio, però,viene bruscamente interrotto sei anno dopo quando Guido e il suo figlioletto Giosuè(Giorgio Cantarini) vengono deportati in un campo di concentramento nazista insieme a Dora che decide di seguirli per stare vicino alla propria famiglia.

La prima parte del film è in piena linea con lo stile del regista toscano: comicità che sprizza da tutti i pori, giochi di parole e un utilizzo ben congegnato del suo corpo disarticolato ai limiti dell’innaturalezza, retaggio dei suoi trascorsi circensi e dell’ammirazione per l’ideale maestro Charlot. Toni allegri e scherzosi che si sposano alla perfezione con il clima fiabesco della vicenda. Un clima rafforzato dalla presenza degli immancabili elementi del genere come l’amore contrastato dalla suocera, la prova da superare e il cavallo sul quale i due amanti scappano per coronare il proprio sogno. Il tutto avviene in un contesto ambientale volutamente non specificato nel quale,tuttavia, fin dalle prime battute è possibile scorgere le prime avvisaglie del disastro che avverrà di lì a pochi anni.

I punti di riferimento dal quale Benigni prende spunto per arricchire la sua carica comicasono il suo grande amico Massimo Troisi e il succitato Charlot. Dal primo eredita e cita le sequenze di corteggiamento nei confronti di Dora come l’appostamento in piazze per spiare i movimenti della giovane maestra;l’influenza del secondo,invece si materializza non solo nell’uso del corpo ma anche nelle concezione della promiscuità tra commedia e tragedia. Un confine molto labile che viene varcato nella seconda parte del film ambientata nel campo di concentramento e nella quale i toni ironici di Guido servono per esorcizzare la paura della morte e tranquillizzare il figlio. Rimane celebre, in tal senso, la scene in cui il protagonista traduce in maniera del tutto differente le istruzioni del comandante tedesco per convincere il figlio che in realtà è tutto un gioco. Va letta, così, in questa direzione la scelta di non mostrare mai  i pericoli e le atrocità della guerra che non per questo vengono occultate, anzi diventano ancora più lampanti e dolorose attraverso gli sguardi dei protagonisti e i malinconici attestati d’amore di Guido verso la sua Dora.

Nonostante alcuni limiti di sceneggiatura, La vita è bella rimane scolpito nell’animo del pubblico perché fatto con il cuore e rivolto al cuore di ognuno di noi.



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