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“L’anima buona del Sezuan”: una preghiera dall’Altrove nella favola cinese de Le Belle Bandiere

Maria D'Ugo

Uno degli elementi caratterizzanti le favole è il loro sfuggire strutturalmente a una determinazione specifica di tempo e spazio, essendo rivolte verso un altrove e mai esplicitamente verso la Storia. Se il favolista è Bertolt Brecht, forse la tentazione di localizzare questo Altrove potrebbe arrivare; dunque, dove siamo? A Bologna, all’Arena del Sole (dove lo spettacolo è andato in scena dal 21 al 25 novembre). Nella provincia del Sezuan. Sui palchetti di legno con le maschere della Commedia dell’Arte. E ancora, nella cupa Germania degli anni ’40, nei rioni di un meridione che emerge con voce e canti ed è coscienza archetipica prima ancora che geografica. Siamo nella favola, nella Storia. Nello spazio della tradizione tradita e della rivoluzione rimandata. In tutto questo, in molto altro. E al contempo ne siamo fuori.

“L’anima buona del Sezuan”, messa in scena de Le Belle Bandiere. Foto di Marco Caselli Nirmal

Elena Bucci e Marco Sgrosso, la compagnia de Le Belle Bandiere, al decennale dalla scomparsa del maestro Leo de Berardinis, cui l’intero progetto è dedicato, scelgono di assumersi tutti i rischi e le responsabilità di un’eredità scenica complessa, e regalano con L’anima buona del Sezuan,  coproduzione CTB – Centro Teatrale Bresciano ed ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione al suo debutto ufficiale lo scorso ottobre presso il Teatro Sociale di Brescia, una piccola perla di raffinatezza e virtuosismo, una traduzione personale, inattuale e infedele, dunque perfetta, di teatro epico. Ne toccano le vette, esplorandone con grazia le possibilità.

L’anima buona del Sezuan nasce dalla mano di un intellettuale in fuga, ed è tuttora ritenuta una fra le realizzazioni più complete e mature dell’opera di Brecht. Esule fra Finlandia e Danimarca, l’uomo di teatro guarda alla sua Germania mentre dalla penna prendono corpo le parole della prostituta Shen-Te, dell’acquaiolo Wang, dell’aviatore senza aereo Yang Sun e di tutta la schiera di disoccupati e pitocchi, i disgraziati che compongono il miserevole popolino residente in questo Altrove: un mondo consumato che comincia a perdere i suoi dei. Sono questi ultimi a commissionare all’acquaiolo la ricerca di “un’anima bella”. Sempre che in tutto il Sezuan ve ne sia ancora qualcuna. 

Nella quasi totalità dei testi brechtiani è molto facile che la miccia accesa fin dalle prime battute del dramma sia destinata a consumarsi e a portare l’intero baraccone a deflagrare ben prima della fine dello spettacolo. Come nelle favole, dove lo schema fisso non prevede nessun meccanismo basato su un reale colpo di scena, così ne L’anima buona del Sezuan lo spettatore in platea assiste consapevolmente alle vicende di quest’anima buona, l’unica e l’ultima, sperando nel respiro dello scioglimento, al termine della peripezia. Solo che nelle favole brechtiane è all’eroe stesso che manca la possibilità di soddisfare questa speranza, per il semplice fatto che non ci sono eroi. Elena Bucci, nei panni di Shen-Te e del suo alter ego maschile Shui-Ta, fronteggia un’umanità meschina e calcolatrice in un’atmosfera da pre-capitalismo; di “bontà” ci si riempie la bocca ma non lo stomaco, tutto sta a imparare a perdere l’umano, e sopportare la crudeltà. Shen-Te in questo è molto più dell’eroina vessata da una sorte avversa, è l’incorporazione stessa dell’umana dialettica della contraddizione. Scompare l’empatia e niente si salva. Non la bontà, non l’amore, non l’integrità, poco più che merci. Men che meno possono salvarsi questi dei così postulanti, impiccioni eppure distanti, indifferentemente sordi. Men che meno, infine, noi che osserviamo. Resta lo strazio. È un Altrove non così distante da casa nostra. Si riporti pure tutto questo al ben noto meccanismo di straniamento, ma lo si arricchisca dell’abilità e dell’armonia con cui le Belle Bandiere attuano la concertazione generale dello spettacolo e ne risulterà un’epica contemporanea di puro ritmo. 

L’anima buona del Sezuan è uno spettacolo complesso, stratificato, forte della raffinatezza sontuosa del gesto e di un virtuosismo vocale incantevole, mai incantatore. La musica (tradizionalmente sempre presente nei testi brechtiani) si snoda fra le assi dei tre palchetti di legno su cui danza la disgrazia delle maschere; dilata l’atmosfera e mostra una miseria elegante. Nella favola dorata, “che sul finale s’è guastata”, resta infine il mondo “così com’è, e niente lo può cambiare”. Resta quindi una preghiera, che nel momento del finale, potentissimo, non è la maschera ma l’umano a pronunciare, mentre le luci si stringono sui residui di carne viva che emerge oltre ogni possibile finzione. È soprattutto fuori dai palcoscenici, che di anime belle c’è ancora bisogno.

 

 

(Immagine di copertina: “L’anima buona del Sezuan” de Le Belle Bandiere. Foto di Marco Caselli Nirmal)

 

L’ANIMA BUONA DEL SEZUAN

di Bertolt Brecht

traduzione di Roberto Menin

progetto, elaborazione drammaturgica e interpretazione Elena Bucci, Marco Sgrosso

con Maurizio Cardillo, Andrea De Luca, Nicoletta Fabbri, Federico Manfredi, Francesca Pica,

Valerio Pietrovita, Marta Pizzigallo

regia di Elena Bucci con la collaborazione di Marco Sgrosso

disegno luci Loredana Oddone

cura e drammaturgia del suono Raffaele Bassetti

musiche originali eseguite dal vivo Christian Ravaglioli

macchinismo e direzione di scena Viviana Rella

supervisione ai costumi di Ursula Patzak

in collaborazione con Elena Bucci

scene e maschere Stefano Perocco di Meduna

assistenti alla regia Beatrice Moncada, Barbara Roganti

sarta Manuela Monti

una coproduzione CTB Centro Teatrale Bresciano / Emilia Romagna Teatro Fondazione

collaborazione artistica Le Belle Bandiere

si ringrazia Davide Reviati per l’immagine



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