L’”Agamennone” dal cuore rock di Davide Livermore
In scena, per la 57a stagione delle rappresentazioni classiche del teatro greco di Siracusa, Stagione promossa dall’INDA e programmata dal 17 maggio al 26 luglio, Agamennone di Eschilo, regia di Davide Livermore che conclude la trilogia dell’Orestea iniziata un anno fa con Coefore ed Eumenidi.
Livermore innesta la lettura scenica dell’Agamennone nell’era post bellica successiva alla Grande Guerra. Gli anni Trenta, con i loro totalitarismi e i loro esercizi di crudeltà collettiva, possono offrire una chiave di lettura per l’antico mondo greco descritto nella tragedia ma l’asse temporale può essere spostato fino all’epoca contemporanea nel nefasto scenario della guerra in Ucraina.
Attorno ai personaggi principali, il regista costruisce un tessuto connettivo di grande qualità: la sentinella è una intensa Maria Grazia Solano nella sua accorata preghiera agli dei prima di avvistare il segnale di fuoco che annuncia il ritorno del re; i vecchi argivi in carrozzella (Tonino Bellomo, Edoardo Lombardo, Massimo Marchese) sono i reduci rappresentativi delle guerre di ogni tempo e di ogni latitudine, con tutte le implicazioni di carattere politico, sociologico, morale. Essi sono accuditi dal coro guidato dalla corifea (Gaia Aprea) e formato da tre infermiere (Maria Laila Fernandez, Alice Giroldini, Valentina Virando) e due medici (Marcello Gravina e Turi Moricca). Il ruolo del messaggero è affidato a Olivia Manescalchi, che si presenta in scena in uno stato di allucinazione e di allarme continuo.
Nei moderni ed eleganti costumi di Gianluca Falaschi prevalgono i toni del rosso e del nero: un rosso gridato che evoca lussuria e sangue, un nero assoluto che prelude alla notte. Tra questi due poli cromatici l’antracite chiaro del doppiopetto gessato di Agamennone, il verde militare delle divise, il bianco dei camici.
Il senso dello spettacolo va oltre l’asciutta lezione del testo nella rigorosa e poetica traduzione di Walter Lapini centrata sul valore del linguaggio, in cui la parola – affamata di realtà – diventa azione scenica. Il fasto visivo di Livermore, che insieme a Lorenzo Russo Lainardi firma anche la scenografia, nel recupero di valenze mitiche e simboliche all’interno della nuova spettacolarità, sembra voglia rivelare il sentimento delle cose oltre che degli uomini. Accanto al divano Chester, al mobile bar, al grammofono che evocano un intérieur aristocratico fin de siècle, convivono elementi totemici, come provenienti da spazi lontani. La grande parete specchiante che si erge a mo’ di quinta sul fondo, riflette l’intera cavea e gli spettatori, trasportandoli nella tragedia. I riverberi che ne scaturiscono dilatano la superficie spingendo lo sguardo oltre l’orizzonte scenico. Tutte le geometrie e gli oggetti partecipano alla tensione emozionale della recitazione. I due grandi led incorniciati – di una circolarità quasi mistica – sono lo spazio privilegiato della vanità e dell’arroganza del potere. Nel loro perimetro scenico scorrono immagini che evidenziano sprazzi onirici, elettriche pulsioni a rappresentare livelli dell’inconscio, citazioni dell’arte classica, e suggestioni cinematografiche che doppiano i personaggi reali. Su quel palco Agamennone, quasi raggelato in una staticità oratoriale, celebrerà il suo discorso da vincitore con sottofondo di applausi e ovazioni registrate, in piedi, davanti alla sua immagine filmata in una azione speculare, anticipando la sua imminente fine nel confronto tra l’uomo vivo e il suo simulacro. Su quell’altare, Clitennestra, persa nella sua libidine di sangue, officerà la sua liturgia di morte ed Egisto pronuncerà il suo necrologio soddisfatto con voce inframezzata da giuste pause e clausole rapide e perentorie, ad effetto, come si conviene a un futuro dittatore “Ma adesso il potere di Agamennone è mio, / lo userò per farmi obbedire”.
L’imponente disegno luci di Antonio Castro crea una atmosfera sospesa, sottilmente minacciosa e inquietante con irruzioni di una colonna sonora a tratti convulsa, e magistralmente eseguita dal vivo da Diego Mingalla e Stefania Visalli su due pianoforti che virgolettano la scena. In questo universo sonoro creato da Mario Conte – la Musikalisches Opfer di Bach è in costante dialogo con sonorità stranianti, effetti dodecafonici e innesti rock.
La flotta greca è un cumulo di barchette di carta con cui gioca lo spettro di Ifigenia (nella doppia interpretazione di Carlotta Maria Messina e Mariachiara Signorello), ospite inquietante con un tocco horror alla Tim Burton, che percorre l’intera latitudine drammaturgica.
In questo nero rituale di passioni, tradimenti e delitti si impongono con prepotenza i temi della vendetta (Ate) e quello della giustizia (Dike) sotto la cui egida ognuno, in questa famiglia lacerata dall’odio, rivendica per sé il diritto di legittimare la propria condotta: la distruzione di Troia, conseguenza dell’adulterio di Elena, viene classificata all’interno della categoria degli atti compiuti secondo “giustizia”, Clitennestra ucciderà Agamennone per vendicare il sacrificio di Ifigenia mentre l’assassinio di Cassandra sarà “giustificato” come ritorsione all’oltraggio ricevuto dall’introduzione della concubina nella reggia di Argo, ad Egisto è attribuita la funzione di vendicatore del padre Tieste.
La scena, pur nella disposizione rigorosa di tutti gli elementi, è esposta al tumulto delle forze che sfigurano e distruggono i personaggi, i quali modellano i loro movimenti sui volumi architettonici e gli oggetti sparsi intorno, creando nuovi gruppi plastici, nuove prospettive spaziali, in un’atmosfera sempre più allusiva, mitica, misteriosa che – in alcuni quadri – rammenta certe visioni metafisiche di De Chirico.
Su tutti un’aria da elegante maledettismo hollywoodiano tra femmes fatales, atmosfere noir e patologie criminal-politiche che gli attori profondono in giusta misura.
Il coro mantiene il suo carattere di raccordo opponendosi a volte ai personaggi, in contrasto dialettico ben distribuito tra le varie componenti, senza appesantimenti. La coefora, nella vibrante interpretazione di Gaia Aprea, ha l’algore e la postura di un kapò. La sua linea espressiva impone una continua vigilanza ai gesti, ai passi, alla fissità delle espressioni facciali che si traducono in una precisione e una intensità di straordinario spessore psicologico.
La Clitennestra di Laura Marinoni è tutta giocata sui registri alti, sulla tensione in bilico tra algida e straniata eleganza e coinvolgimento emotivo. La donna virago dal “maschio cuore”, giustiziera impietosa non sazia di sangue, nel suo incedere fiero e regale profonde una vellutata sensualità mostrandosi madre nell’unico, fugace quadro in cui tiene per mano i figli Oreste (Giuseppe Fuscello) ed Elettra (Margherita Vatti). Nella sua continua ambivalenza sviluppata in un sottile gioco tra realtà e finzione, Laura Marinoni costruisce un ritratto di signora a cui si addice il disegno borghese dell’inizio, fino al momento in cui questa femminilità espansa non si tramuta in follia e furore assassino ricomponendosi nel freddo lutto della parte finale quando, seduta sul divano accanto ad Egisto, riduce la fenomenologia dei delitti a un concatenamento di compiti da sbrigare, secondo una ritualità dissacrata “Io e te siamo i padroni di questa casa ormai, / e tutto sarà come vorremo che sia”.
Sax Nicosia modella la figura di Agamenonne con una superba interpretazione. In doppiopetto grigio e lunga redingote nera, insinuante, seducente, ha l’allure da divo. Accolto da eroe e invitato a camminare su un tappeto di porpora rossa, si piega alle insistenze di Clitennestra ma si fa togliere i calzari per attenuare la superbia del suo gesto nei confronti degli dei. Ogni sua espressione o azione, è un surplus di dati, di considerazioni, di suggerimenti fino al drammatico finale che lo blocca, come in un fotogramma, con il viso attraversato da lampi di stupore e di terrore.
Linda Gennari, fasciata in tubino nero haute couture, disegna a tutto tondo una Cassandra di tragica e intima grandezza, bottino di guerra e vittima innocente del suo destino di inascoltata. Il viso e il vagare delle mani esprimono il suo senso di essere braccata dall’interno. Quasi in stato di trance, si produce in un declamato di potente e misteriosa gravità, sottolineato da preziosi movimenti algebrici del corpo e che si spalanca all’irruzione dei suoi demoni prima di andare incontro al suo ineluttabile destino.
Stefano Santospago è un Egisto salottiero, fatuo, ombroso, il corpo immobile, decontratto ma eretto, lo sguardo obliquo. Con il suo atteggiamento di altero distacco, si offre come mero precipitato allo sguardo allucinato di Clitennestra persa nei propri labirinti deliranti. Silente e sempre presente prenderà la parola solo nell’ultima scena per rievocare la triste vicenda di suo padre Tieste e rivendicare il proprio ruolo di regista nell’assassinio di Agamennone.
Nel finale una strepitosa performance della sentinella Maria Grazia Solano che intona Glory box dei Portishead manda in delirio l’intera platea.
Maestoso, epico, lirico, drammatico e straniante ma, soprattutto, di empatia con il pubblico, lo spettacolo vive di una sua vita che è totalmente teatrale. La cifra registica di Livermore si rivela per bagliori e intuizioni, il suo pensiero si dichiara per ellissi e richiede agli attori una tensione continua, controllata e studiatissima che tende a far raffreddare e a temprare l’incandescenza delle passioni con il soffio della razionalità. Egli, senza abbandonarsi al plaisir che il testo avrebbe potuto offrirgli, vi aderisce con umiltà e disciplina filologica ma senza farsene soffocare. Sulla scena, il suo piano di ricerca diventa un “oltre” che si traduce in percezione del nostro tempo e insieme sequenza di accensioni emotive, illuminazioni di una razionalità inquieta in cui rispecchiare le anamorfosi della contemporaneità.
Il mito esiste e resiste nell’oggi.
[Immagine di copertina: foto di Michele Pantano]