“La relazione con gli altri non è un gioco, è una promessa”. Intervista alle direttrici del Teatro Bastardo a Palermo
È in corso a Palermo il festival Teatro Bastardo dedicato alla ricerca e al teatro off, che, risignificando il termine bastardo in un’accezione positiva, come sfida coraggiosa di chi non ha paura di lavorare sulle linee di confine tra arte e pubblico, tra “alto” e popolare, tra prosa per adulti e teatro per bambini, auspica una contaminazione e conseguente imbastardimento fra diverse forme artistiche.
Iniziato il 7 ottobre, e in corso fino al 23 ottobre, Teatro Bastardo è disseminato in spazi diversi della città, dal centro alle periferie, portando la firma di Giulia D’Oro, attiva da molti anni nel campo della progettazione culturale e nel nucleo produttivo di Teatro Bastardo fin dalla prima edizione, e di Flora Pitrolo, curatrice di eventi artistici performativi attiva tra l’Italia e la Gran Bretagna e studiosa dello sviluppo della performance sperimentale in chiave interdisciplinare.
Questa in corso è un’edizione cerniera tra il passato del festival, nato nel 2015, e il triennio ’22-’24 la cui direzione artistica è, per la prima volta, nelle mani di queste due donne “bastarde” che coltivano un’idea di teatro sempre più radicale, interdisciplinare e plurale. In scena Elisabetta Consonni, Tony Rizzi, Agrupación Señor Serrano, La Casa di Creta, Corps Citoyen, Nicoletta Epifani, Sara Firrarello, Mario Barnaba, Bottega Cartura.
Abbiamo intervistato Giulia D’Oro e Flora Pitrolo che ci hanno risposto in pieno svolgimento del festival, per parlare di scopi e desideri.
Prerogativa di questa edizione di Teatro Bastardo è ampliare l’orizzonte spettatoriale, accogliendo nuovi sguardi sul mondo del teatro off e sulla performance. In che modo l’idea che avete scelto di coltivare sin dalle origini del festival si fa più radicale quest’anno?
Il programma è stato costruito come uno spazio per una rappresentazione plurale di relazioni, identità, narrazioni, comunità. Narrazioni alternative della fiaba, del mito, della rappresentazione del genere, del corpo attraversano tutti gli spettacoli e i laboratori di TB22, così come il sincero interesse nel coinvolgimento del pubblico, che oltre ogni retorica trova nello spettacolo stesso la sua necessità. Noi abbiamo costruito così questo programma, con l’intenzione reale della sperimentazione: aperte a ciò che può accadere o non accadere. Ed è successo invece che queste narrazioni rivivessero insieme, fossero riscritte con il pubblico nello spazio dello spettacolo, nello spazio della sorpresa, cosa per cui provvedere agli elementi formali non necessariamente basta. Abbiamo dato molta fiducia agli artisti e al pubblico perché questo avvenisse.
Avevamo un’aspettativa un’aspettativa su di noi, che fossimo in grado di essere attente e sensibili per far emergere e indirizzare in una direzione collettiva lo sfarfallio elettrico che speravamo potesse crearsi nella relazione tra scena e platea. Poi avevamo una speranza sul pubblico che «invitiamo a venire con noi con gli occhi aperti nella notte», sulla base dell’intuizione che ci ha fatto inseguire questo tentativo di relazione. E poi una certa atmosfera, per noi precisa, ma impalpabile per costruire qualcosa di «nascosto e profondo» (così ci ha detto spettatore attento) – e citando Antonio Neiwiller – «aperto e appartato». Non possiamo dimenticare la lezione di Elisabetta Consonni, che ci ha messi tutti sul palco a condividere la responsabilità e la gioia della creazione, invitandoci a essere «radicalissimi e disponibilissimi».
Leggo tra le parole chiave del concept di Teatro Bastardo “prossimità” intesa politicamente come la volontà di aprire la porta a nuove voci e nuovi mondi estetici. Questa accezione di un termine che è sinonimo di vicinanza fisica colpisce molto. Potete raccontarci quali sono le strategie attuate perché l’intenzione diventasse realtà?
Questa parola è profondamente legata al discorso sul movimento, sullo spostamento, sul fatto di dover tenere gli occhi aperti. Più guardi, più vedi. Più ti avvicini al tuo soggetto, più ti appare nitido. Se non vedi più niente, devi spostarti. Se non ti piace cosa vedi, devi intervenire. E quando vedi, devi accettare di esser visto a tua volta. Insomma il discorso della prossimità ha più a che fare per noi con un posizionamento dello sguardo: si dice talvolta che certi registi cinematografici “accarezzano” i loro personaggi. Noi vorremmo fare lo stesso: vorremo sempre spostarci per fare in modo di indagare la relazione tra le persone e i concetti che mettiamo insieme.
In termini pratici, la strategia è di creare dei momenti di effettiva prossimità tra artisti, spettatori, e tra mondi culturali e sociali differenti. Non è facile perché ci interessa che questa relazione sia seria e sincera, non sbrigativa o superficiale. I laboratori di Elisabetta Consonni e dei Corps Citoyen ci permettono di fare un discorso lento e profondo su come ci percepiamo, sul fatto che entrare in relazione gli uni con gli altri non è un gioco, è un patto, è una promessa. Una partecipante al laboratorio di Elisabetta ci ha detto, dopo la prima sera: «assurdo: non ci conoscevamo ma ci siamo messe subito a parlare dei massimi sistemi, anche di cose veramente pesanti!». Il punto è che la relazione non è una sciocchezza: se si entra in contatto, qualcosa può accadere. Le conversazioni che abbiamo programmato – “Che cos’è una scena?” e “Che cos’è un monologo?” – sono anch’esse tentativi di creare impalcature per un certo modo di lavorare insieme [le conversazioni avvengono tra artisti, studiosi e operatori teatrali e sono aperte al pubblico, ndr]. Non solo nei temi (lì la relazione al concetto di prossimità è chiara), ma anche nel modo in cui ci si mette in relazione: ci mettiamo in cerchio e ragioniamo. In una situazione del genere devi esporti, perché se non ci metti la fiducia non c’è niente. Idem per il nostro rapporto con l’Arenella: anche quello è un patto, è una promessa [si tratta di un borgo marinaro incluso negli spazi del festival quest’anno per essere il palcoscenico di Teatrino Bastardo dedicato a bambini e famiglie, ndr]. Non siamo turisti, non vogliamo andare via, vogliamo rimanere e costruire, quindi dobbiamo imparare a conoscerci nei nostri desideri, nei nostri bisogni, anche nelle nostre difficoltà e perplessità.
Teatro Bastardo non ha solo una nuova direzione artistica ma anche una nuova immagine, proprio perché l’identità visiva è strettamente legata all’identità politica del festival. Le fotografie dell’artista Vito Stassi, condivise sui social di TB rivelano un’estetica dissonante, stonata, aperta a molte interpretazioni. Come nasce l’intesa tra il fotografo palermitano e TB?
Nasce da una profonda ammirazione, nostra nei confronti del lavoro di Vito Stassi che seguiamo da anni. Rispettiamo quello che fa sia con la pittura che con la fotografia. Noi ci siamo soffermate su un archivio più “vernacolare” di Vito: fotografie che ha scattato e continua a scattare in giro per Palermo che hanno uno specifico tipo di sguardo sulla città e che anche la città sembra guardare a sua volta. Sono fotografie estremamente riconoscibili come palermitane, ma che vedono qualcosa di – di nuovo nascosto e profondo – nella città che solo chi la vive conosce. C’è una conversazione, talvolta tragica, talvolta ironica, in queste foto, è come una conversazione tra vecchi amici. Umili cose, ma molto interessanti, o molto misteriose, o molto sexy. Un linguaggio segreto tra la performance della città e quella dei suoi abitanti. Sono foto che racchiudono in sé il tipo si relazione, di sguardo, di conversazione che questo festival vuole instaurare con la città.
Questa edizione rappresenta una cerniera tra gli anni dell’origine e consolidamento e il futuro del festival. Che prospettive, quali strade intraprese adesso seguirete nelle prossime edizioni?
Per questa edizione abbiamo messo in campo tanti inizi programmatici che ci interessa sviluppare e approfondire in futuro. Tra questi certamente lavoreremo in primis su un nuovo sguardo sulla città tutta e sulle potenzialità di spazi non deputati allo spettacolo, sullo sviluppo e sulla circuitazione di nuove voci e quindi nuovi discorsi, soprattutto fatti da donne, e sul perseguimento di una programmazione per bambini che sia davvero ambiziosa, ovvero che prenda sul serio l’infanzia come categoria spettaoriale a sé stante e non necessariamente in un orizzonte di “progresso”. Vogliamo continuare a espandere la nostra rete di partner e alleati, cercando anche di estendere le nostre attività ad altri momenti dell’anno e non solo al periodo del festival.
[Immagine di copertina: foto di Elisa Vettori]