“La metamorfosi”: fotografie di scena del degrado umano
Dopo il debutto televisivo dello scorso dicembre su Rai 5, Giorgio Barberio Corsetti ha portato in scena dal 3 al 9 maggio al Teatro Argentina del Teatro di Roma – Teatro Nazionale la sua opera ispirata al racconto più noto di Kafka, La metamorfosi. Ma il testo kafkiano dell’inizio del Novecento è, tuttavia, solo il pretesto per affondare il dito nella piaga del nostro presente. Lo spettatore ne esce inquieto e consapevole del degrado che egli stesso sta vivendo. La trasformazione del giovane Gregorio (Michelangelo Dalisi) colpisce ognuno nelle sue fragilità, tocca l’intimo più profondo. Il suo isolamento forzato è lo specchio della quarantena appena trascorsa alle nostre spalle ma il cui disagio e le cui conseguenze devono ancora sviscerarsi del tutto. Crolla il sistema della famiglia che da nido diventa prigione. Il padre e la madre di Gregorio (Roberto Rustioni e Sara Putignano), insieme alla sorella Rita (Anna Chiara Colombo), vivono quella metamorfosi malata del figlio e fratello con dolore, ribrezzo e, infine, sollievo. Lo rinnegano quando comprendono che non possono più ottenere nulla da lui che prima, invece, era per loro degno della stima più profonda in quanto fonte di reddito e sostegno.
Ma la vera padrona della scena non è solo la crisi psico-emotiva attuale quanto soprattutto l’alienazione. Quest’ultima spadroneggia e si nota già dall’artificio drammaturgico (e, quindi, dalla scelta registica) dell’utilizzo della terza persona. I personaggi, infatti, si raccontano come se leggessero il testo e si reinterpretano confermando, inoltre, lo stile di Corsetti che li vuole iperfisici e onomatopeici. Lo testimoniano i cori di procuratori, contabili, pensionanti e donne di servizio che, mentre danno la caccia al povero Gregorio, ricordano con certi vocalizzi proprio i cori dell’antico teatro greco.
L’interpretazione di Dalisi è degna di nota per la trasformazione mimica, fisica e vocale che riesce ad attuare. Rantolando con le sue ‘zampette’ e i suoi contorcimenti, cammina sui muri, mangia avanzi e spazzatura, guarda con compassione il mondo che tanto lo disgusta fuori dalla finestra; dà voce, corpo e immagini alla sua metamorfosi. L’isolamento e la repulsione sono le uniche armi che egli ha a disposizione per combattere il mondo esterno, la società malata in cui è costretto a vivere. Sono armi che si rivelano però autodistruttive. Il protagonista si costringe a marcire tra i suoi stessi rifiuti, si ritira da un mondo sporco sporcandosi egli stesso, rendendosi indegno di stare al mondo già così macchiato. Si ribella ai sistemi distanziandosene ma paga il prezzo della solitudine, dell’incomprensione e del disprezzo altrui, anche dei suoi stessi familiari. Rifugge il lavoro e le gerarchie cui è stato sempre dedito e subordinato, quel posto fisso che offre tanta stabilità quanto una drammatica morte interiore. Per contro, i suoi familiari lavorano di melodramma tra gridolini, svenimenti ma, dopotutto, il loro intento è proprio quello; così riescono anche loro magistralmente ad angosciare lo spettatore passando vertiginosamente dalle sfumature drammatiche a quelle tragicomiche.
Attraverso la messa in scena i mondi kafkiani tornano di moda, sono attualissimi con il loro distanziamento sociale, l’egoismo e la solitudine. Forse questa nuova metamorfosi, questo ‘morbo’ che affligge il nostro tempo è solo la declinazione di un qualcosa di ‘marcio’ già preesistente. Forse chi guarda Gregorio come un malato che colpito da questa orrenda metamorfosi, prende distanza totale dal mondo esterno, in realtà (facendo un parallelismo con un’altra letteratura, quella sveviana de La coscienza di Zeno) non sa ancora ben distinguere tra il sano e il malato. O forse sta ancora decidendo da che parte stare.
[Immagine di copertina: foto di Claudia Pajewski]