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“La grande magia” di Gabriele Russo: Eduardo in una scatola magica

Simone Sormani

«Ho fatto un giuoco di metaforfora! Il culombo che si trovava in questa gabbia l’ho fatto sparire, e con la metaforfora l’ho fatto trovare nel cappello del signore…e l’ho fatto diventare pollastro! …». Così si concludeva, tra i fischi del pubblico, lo sgangherato numero del prestigiatore di Sik Sik, l’artefice magico, atto unico di Eduardo De Filippo scritto nel 1929. Ma in La grande magia, commedia eduardiana del 1948, in scena per la regia di Gabriele Russo fino al 2 novembre al Teatro Bellini di Napoli (coproduttore con Teatro Biondo di Palermo ed Emilia Romagna Teatro) e poi in tournée nazionale, il gioco sembra essere più serio. Si tratta addirittura di una donna, Marta Di Spelta, fatta “sparire” attraverso un sarcofago dall’illusionista Otto Marvuglia durante uno spettacolino all’albergo Metropole. Marvuglia, un “falchetto” – così lo definiva l’autore –, una via di mezzo tra il modesto imbonitore o manipolatore e il guitto, pronto a inventarsi sempre qualcosa con l’aiuto di complici e della moglie/assistente Zaira pur di sbarcare il lunario, ha escogitato il trucco dietro compenso perché Marta possa concedersi un incontro di un quarto d’ora in motoscafo con il suo amante, lontano dal possessivo marito Calogero. L’incontro diventa una fuga d’amore imprevista e il mago, di fronte alle rimostranze di Calogero Di Spelta che rivorrebbe indietro la moglie, ne inventa un’altra delle sue: gli consegna una scatoletta dove, a suo dire, sarebbe racchiusa la donna. «Se voi aprite la scatola con fede, rivedrete vostra moglie, al contrario, se l’aprirete senza fede, non la rivedrete mai più». La metafora è calzante: solo Calogero potrebbe far riapparire la moglie che lui stesso aveva chiuso in una “scatola” con la sua opprimente gelosia. L’esperimento però non avverrà. La scatola resterà chiusa. Passeranno gli anni, ma il tempo per Calogero rimarrà fermo al giorno in cui iniziò il gioco. «In questa scatola – dirà – c’è la mia fede». Una fede inscalfibile, e pure un po’ di comodo, anche davanti al ritorno della donna: meglio l’immagine illusoria di una moglie fedele che un’amara verità.

Foto di Flavia Tartaglia

Sembrerebbe il solito Eduardo che analizza spietatamente la disintegrazione dei rapporti familiari – e Calogero Di Spelta un Luca Cupiello che sostituisce al presepe una scatola, portando alle estreme conseguenze certe fughe dalle responsabilità dei personaggi piccolo-borghesi del suo teatro – se non fosse che qui ci sono sottili risvolti psicologici, riflessioni sulle capacità di manipolazione e autoinganno attraverso il formarsi di immagini illusorie che sostituiscono la realtà stessa. Aspetti su cui ha lavorato Gabriele Russo, sottolineando del testo il lato onirico e metateatrale – già colto tra l’altro nella lettura che ne diede Giorgio Strehler in una storica edizione per il Piccolo di Milano del 1985. Se esso rimase in parte inespresso nel realismo delle versioni eduardiane, se lo sfondamento della quarta parete restava lì elemento solo accennato nella fuga in motoscafo dei due amanti attraverso la platea, qui le scelte di regia marcano ancora di più il cortocircuito tra illusione e realtà.

Foto di Flavia Tartaglia

È su questo cortocircuito, generato dagli artifici dell’ironico, roboante e carismatico Marvuglia incarnato da Michele Di Mauro, che si basa l’intera messa in scena, in cui visioni ossessive e angoscianti si riproducono e fuoriescono dalla mente prima incredula e poi sempre più alienata del Calogero Di Spelta di Natalino Balasso. Russo scova significati nascosti tra le pieghe del testo e porta tutto sul piano dell’allucinazione, rendendo la messa in scena stessa un gioco, un inganno che mette alla prova la fede degli spettatori al pari del numero di un prestigiatore. Per cui accanto al Marvuglia-Di Mauro e al Di Spelta-Balasso, legati in modo complementare così che l’uno diventi una sorta di coscienza ambigua dell’altro – e di questa complementarità fu consapevole Eduardo tant’è che, caso forse unico nel suo repertorio, si cimentò con entrambi i personaggi (fu Di Spelta nelle prime edizioni e Marvuglia nella ripresa Rai del ’64) –, a Sabrina Scuccimarra, una Zaira esuberante “divetta” da cafè chantant sul viale del tramonto e protagonista di esilaranti battibecchi con Marvuglia riguardo la loro vita di stenti, a Veronica D’Elia, esile e pura nel ruolo della giovane Amelia, il cui destino è digressione tragica sul fatto che nessun prodigio può mai vincere la cruda verità della morte, troviamo attori impegnati in doppi ruoli. Di questi cambi spiazzanti, i più riusciti risultano quelli di Anna Rita Vitolo e Maria Laila Fernandez, maliziose e annoiate clienti del Metropole, e di Christian di Domenico e Alessio Piazza, i complici del mago, che compaiono alla fine tutti insieme nei panni dei parenti di Di Spelta quasi in un unico corpo, aggrovigliato, pesante, tentacolare, avido, a restituirci l’idea eduardiana di famiglia. Si sono ben calati nelle parti, però, anche Gennaro Di Biase nel doppio ruolo dell’amante Mariano D’Albino e dell’ottuso e comico Brigadiere che indaga sulla scomparsa di Marta; Alice Spisa, che è Marta Di Spelta e pure Roberto Magliano, un esasperato creditore di Marvuglia, più volte da questi ingannato; Manuel Severino, che è il cameriere dell’albergo e il divertente Gennaro Fucecchia, maggiordomo di Calogero.

Tutti burattini grotteschi, evanescenti (come suggeriscono le tenui tonalità dei costumi di Giuseppe Avallone), quasi incardinati in un efficace meccanismo di apparizioni e sparizioni in uno spazio senza tempo (dello scenografo Roberto Crea) che contribuiscono a trasformare nel cambio scena dall’azzurro infinito della terrazza del Metropole al colorato appartamento di Marvuglia. Uno spazio che è un viaggio mentale, onirico, tra sottofondi misteriosi ed esoterici (le musiche e il progetto sonoro sono di Antonio Della Ragione); un’allucinazione a cui si è introdotti – già prima dell’inizio dello spettacolo, a sipario aperto – dalla voce registrata di Eduardo, e dove molto è lasciato all’immaginazione: il sarcofago è solo accennato, e la fuga di Marta e Mariano avviene senza motoscafo, in un mare disegnato dalle luci (di Pasquale Mari) dietro il velatino di fondo.

Nuove le tracce, dunque, seguite dalla regia di Russo e dall’ottimo cast («costruito guardando al panorama nazionale per una commedia non radicata nella napoletanità», ha detto il regista) che mostrano ulteriori e diverse sfumature di un classico che parla ancora al nostro presente. E se, in quest’epoca di fragili mondi virtuali, guardiamo al rapporto tra il Marvuglia grande affabulatore di Di Mauro, che in alcuni momenti si atteggia in posture mussoliniane, e il Di Spelta manipolato e impaurito borghese di Balasso, o agli esperimenti di Marvuglia per moltiplicare finti applausi di inesistenti folle oceaniche, l’opera si apre a letture, anche politiche, attualissime.

Opera che, forse proprio per essere in anticipo sui tempi, ha una avuto fortuna scenica, nazionale e internazionale, solo postuma – si ricordano, oltre a quella già citata di Strehler, le versioni dello spagnolo Luis Pasqual (2019, Stabile di Napoli) e di Emmanuel Demarcy-Mota (2022, Théâtre de la Ville di Parigi). A Eduardo toccò invece lo scetticismo dei critici, che si limitarono a rilevarne il “pirandellismo” per alcune evidenti analogie con l’Enrico IV e con il pensiero di Luigi Pirandello: Silvio D’Amico scrisse «stavolta il pirandellismo di Eduardo s’è buttato in audacie grosse; ha giocato con l’impossibile» (M. Giammusso, Vita di Eduardo, Mondadori, 1993), mentre Anna Barsotti riporta (in Eduardo, Cantata dei giorni dispari, Einaudi, 2014) che, dopo una prima all’Eliseo di Roma, dalla sala si levò polemicamente il grido «Pirandello! Pirandello!». Si parlò di filosofia mescolata all’avanspettacolo. Si disse che mancava il calore umano della napoletanità.

Ma qui lo scetticismo è superato: fondendo in maniera convincente reale e fantastico in una scatola magica, l’allestimento di Russo ha mostrato un Eduardo oltre la tradizione, immaginifico e consapevole che, come diceva, in teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione, e che di questa finzione è complice anche il pubblico. A quel pubblico, che Eduardo diceva «deve fingersi mare», si rivolge alla fine Calogero Di Spelta dopo aver allontanato da sé tutte le immagini – non importa se vere o fasulle – con la sua fede ben stretta tra le braccia. Come un artefice magico pronto a iniziare un nuovo gioco.

 

[Immagine di copertina: foto di Flavia Tartaglia]



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