La festa della parola
Cinque racconti di Giovan Battista Basile, usati a pretesto di altrettante letture, da scorrere non per trarne insegnamenti lapidari sulla vita ma per assaporarne a pieno il gusto principale, ovvero «il destino inedito, non più assegnato dalla genealogia familiare o sociale». È questo l’intento che ha guidato Antonella Silvestrini, esperta di psicanalisi e cifrematica, nella stesura del suo libro “La festa della parola. Le fiabe di Giovan Battista Basile” (Edizioni ETS).
Non un trattato psicologico e storico, tantomeno letterario. Ma un testo che potremmo definire un omaggio alla modernità dello scrittore barocco il quale «avvalendosi della beffa, dell’esagerazione e della stravaganza, […] offre la chance di sfatare, man mano che vanno enunciandosi, le certezze soggettive di chi si fa personaggio, fino all’approdo a una felicità che non deve più nulla al canone».
Il testo di Silvestrini si inserisce di diritto nel dibattito contemporaneo fortemente sentito, quello dell’ormai “società della performance” nella quale tutti siamo immersi e che ci chiede di mostrarci sempre vincenti, felici e tagliatori di traguardi. Eppure lo fa in sordina, attraverso un pretesto delicato e allettante: quello del mondo delle favole di un autore irriverente e satirico, più ispirato nel raccontare i difetti e le stranezze, che le vittorie e i pregi dei suoi protagonisti. Lo scopo? «Constatare che l’itinerario è costituito di acquisizioni e non di tappe solleva dal collocarsi in un viaggio ideale e dall’immaginarsi sempre in anticipo o in ritardo rispetto alla meta ideale o alle aspettative sociali, insoddisfatti e rammaricati, con la testa rivolta all’indietro», scrive.
L’itinerario, infatti, è il fulcro di tutto, e non va precluso sulla base di una scelta ideale che è tale perché comparata ad un’alterità fantasma. Ai figli, “pensati a partire dai risultati”, dalle soddisfazioni volute innanzitutto di genitori; a chi soffre di invidia sociale perché paragona il suo percorso – sempre individuale – a quello degli altri; alle identità fondate su criteri “ideali” per le differenze di genere.
I cinque racconti prescelti sono L’ignorante, La selva d’agli, I due fratelli, Il catenaccio e L’orsa. Si tratta di testi estremamente esplicativi dello stile sia linguistico di Basile, che strettamente contenutistico da un punto di vista letterario: nei racconti dello scrittore campano «non ci sono buoni o cattivi tutti d’un pezzo. Ciascuno è in viaggio». Non ci sono assolutismi, e qui la nostra autrice sottolinea la presenza del gerundio della vita, dell’azione mentre si compie, come la forza, la pulsione, che non lascia alternativa. Infine, nonostante le massime finali potrebbero lasciare pensare ad altro, secondo Silvestrini in Basile non vi è nessuna morale, tanto cara invece ad Esopo e alle sue tartarughe più veloci delle lepri. Nessuna lezione illuminata da fornire al lettore dall’alto di qualche pulpito. Solo ipotesi che stimolino attraverso il potere delle parole ma che non si ergano a vincoli interpretativi. Esattamente come La festa della parola, che vuole fornire interrogativi e non risposte nette. Silvestrini, infatti, applica anche al suo testo ciò che pensa in generale: «I libri, come i maestri, contribuiscono al viaggio ma non insegnano a vivere. Nessuno insegna – così come nessuno impara – a vivere poiché la vita è originaria, non si racchiude in un algoritmo e non si ripete».