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Kurt Cobain nella Seattle “No-global”: a Roma va in scena “Unplugged”

Andrea Zangari

Da domani, venerdì 10, a domenica 12 maggio alle ore 21 va in scena a Roma, negli spazi della redazione di Radio Rock (via Rodolfo Gabrielli di Montevecchio 4), un “live show” dedicato al frontman dei Nirvana scomparso venticinque anni fa Kurt Cobain. Uno spettacolo in cui lui – affermano gli ideatori Giovanni Bonacci e Bruno Pantaleoni –  in un certo senso è “ospite”.

È una storia che nasce non in sala di registrazione, ma nelle strade, quelle di Seattle. Siamo nel 1999 e la città del “grunge” ospita una manifestazione di enorme importanza: la prima apparizione di quel movimento no-global che è rimasto negli occhi, e nelle orecchie, di molti di noi.
La situazione è esplosiva: i manifestanti sono decine di migliaia e la polizia, non riuscendo a gestirli, decide usare il pugno duro. Sono ore molto difficili a Seattle.
Ha da qui inizio un viaggio nell’America di fine anni ’90, che Bonacci e Pantaleoni – rispettivamente attore e musicista – assieme agli interpreti Enrica Pintore, Christian Laiontini e Luca Forte hanno deciso di fare assieme a una delle icone più incisive del panorama musicale internazionale di fine millennio.
Per ritagliarci un’ora che non abbiamo mai potuto vivere, per porgli domande che non gli abbiamo mai potuto fare, per far posare i suoi occhi su cose che non hanno mai potuto vedere ma che, distintamente, compaiono nelle sue canzoni.”
Brani e arrangiamenti dell’evento, organizzato da Radio Rock in collaborazione con TLON e di cui sono partner anche “Your Music Online”, “Riverside School Music, e mediapartner Ondarock e Nirvana Italia, sono eseguiti dal vivo. Abbiamo intervistato Giovanni Bonacci.

Come avete strutturato il lavoro a monte e in prova? C’è una forte idea di regia o prevale una dimensione corale? Il vostro modo di stare in scena vi avvicina più all’idea di attore o performer? 
Il lavoro è nato in maniera piuttosto classica, cioè a tavolino. Leggasi per tavolino: lunghe conversazioni fra Bruno Pantaleoni (che mi ha proposto di realizzare lo spettacolo) e me. Dopo un lungo periodo di gestazione abbiamo elaborato una prima bozza di testo che si è via via evoluto grazie alle idee e ai suggerimenti degli attori. Le prime modifiche al plot sono nate in collaborazione con Christian Laiontini e Luca Forte, e in seconda battuta sono emersi nuovi materiali per i quali è stato fondamentale il contributo di Giulia Maulucci e Alberto Nucci Angeli. È una vera e propria scrittura di gruppo realizzata nell’arco di circa un anno e mezzo. In questo lasso di tempo anche la mise en espace (inizialmente vicina ad un teatro di parola) si sta progressivamente accostando a una dimensione performativa.

Con Unplugged accostate un momento di agitazione politica e la presenza-assenza di un’icona musicale. Per muoversi a cavallo di questa distanza fattuale, quale fil rouge vi ha guidati?
Seattle e gli anni ’90. Sono questi i due fattori chiave che ci permettono di avvicinare le agitazioni politiche alla figura di Kurt Cobain. Il destino ha voluto che la città americana sia stata – nell’arco di dieci anni – dapprima la culla dell’ultimo grande filone del rock (il grunge) e poi dell’ultimo grande movimento anticapitalista della storia (quello che, con un’etichetta forse generica, è definito movimento No-global). Per quanto riguarda gli anni ’90, li vediamo invece nascere dalla disgregazione di una ideologia che aveva segnato il secolo; a Berlino il Muro crolla nel 1989 e l’Occidente (e con esso il capitalismo) perdono la loro controparte critica. Disordinatamente e in maniera non del tutto cosciente riteniamo che il grunge e la musica dei Nirvana esprimano un bisogno di critica sociale proprio nel momento in cui l’Occidente resta “senza avversari”.

Viene prima l’interesse per i fatti di Seattle o la voglie di portare in scena Kurt Cobain?
Il lavoro nasce dalla profonda fascinazione per i tre album dei Nirvana: Bleach, Nevermind e In Utero. L’idea ha impiegato qualche anno per prendere forma, ma io e Bruno eravamo profondamente convinti della possibilità di realizzare ciò che si potrebbe chiamare una “rappresentazione-concerto. L’accostamento con la manifestazione di Seattle ’99 è stato immediato, istintivo: quando ha avuto luogo noi avevamo dodici anni e quelle immagini ci sono rimaste negli occhi. Documentandoci abbiamo capito che il legame fra la rabbia espressa nei brani di Cobain e quella vista nelle strade di Seattle era molto forte. Un legame generazionale molto profondo.
La poetica di Cobain ha segnato ben più che la musica dei primi anni Novanta. Il suo stesso apparire ha codificato un’estetica, forse perché capace di cogliere con la voce, la parola, il mood, un’istanza psicosociale, un disagio artistico ed esistenziale che ancor oggi scontiamo.

Come si traduce attorialmente e drammaturgicamente questo fantasma dall’immagine chiarissima?
Raccontare Cobain mostrando Cobain ci sembrava rischioso e, per molti versi, al limite del grottesco. Parlare di Kurt per noi non è parlare di una rockstar, ma raccontare la persona che più di tutte ha incarnato le inquietudini di una generazione. Drammaturgicamente, il “viaggio con Cobain” si realizza tramite la voce di una persona che ha trascorso con lui le ultime ventiquattr’ore: si tratta di un amico che lo reincontra dopo anni in un posto e in un momento inattesi. Si affiancano a questa voce “nell’ombra” tre figure che rappresentano tre psicologie-sociali degli anni ’90: un dj che si sente vincente davanti al microfono, ma che nel suo privato è pieno di paure; una donna in carriera che sente d’aver smarrito una parte di sé e un giovane figlio della working-class ancora pieno di sogni.

Qual è il ruolo della musica in Unplugged? C’è un uso diretto, a livello di soundtrack? Che relazione si crea (o si può creare) fra linguaggio teatrale e musicale, fra musica e drammaturgia?
È questo l’aspetto più caratteristico dello spettacolo: la tessitura acustica. In scena si mescolano e si inseguono tre tipi di comunicazione: la conduzione radiofonica, il dialogo interno allo studio e la musica. I brani dei Nirvana (e dei Mad Season, band formatasi nel ’94 e composta dai membri di altri gruppi di Seattle) sono tutti eseguiti dal vivo, riarrangiati da Bruno Pantaleoni tramite chitarra e loop station. La relazione fra musica e drammaturgia è fondamentale, la prima influenza profondamente la seconda determinando dei passaggi emotivi che hanno coerenza solo se sostenuti dall’arrangiamento.

Dopo Carrozzerie N.o.t, portate lo spettacolo nella sede di una radio. C’è stato un lavoro di riadattamento al luogo? Riutilizzerete i device radiofonici in corso d’opera?
La strumentazione radiofonica è la nota caratteristica dello spettacolo e sarà riutilizzata anche quest’anno. Sul piano registico, abbiamo adattato lo studio alla splendida redazione di Radio Rock: uno spazio molto particolare che noi utilizzeremo nel modo più fedele possibile. Sarà bello per il pubblico trovarsi immerso nel luogo reale in cui si svolge la vicenda. È una location con una grandissima capacità evocativa.

L’interesse per i fatti di Seattle del 1999, battesimo per quel movimento transnazionale No-global che di lì a poco avremmo conosciuto meglio nelle tragiche giornate genovesi, evoca un impegno socio-politico particolare?
Per voi, che eravate adolescenti in quel frangente storico, che significato hanno quegli eventi? Come ci parlano oggi, in questa nuovo e antichissimo clima politico “populista”? E come può il teatro elaborare questo passato prossimo?
I fatti di Seattle sono un passaggio fondamentale per i trentenni di oggi. Sono i fotogrammi di una battaglia politica alla quale ci sentiamo profondamente vicini, e che è stata spezzata o, per meglio dire “scavalcata”) dai drammatici eventi di inizio millennio. La manifestazione del ’99 è stata l’occasione che ha permesso al movimento No-global di affacciarsi al mondo; ciò che è avvenuto in quelle strade evoca fortemente i drammatici eventi di Genova 2001: diverso il contesto (il G8), molto simili le istanze dei manifestanti. L’impegno sociopolitico è qualcosa senza il quale il nostro spettacolo non potrebbe esistere. Le relazioni tra i personaggi evocano tanti aspetti del mondo attuale dai qualI ci sentiamo distanti: l’assenza di un ideale o di una “visione” all’interno dei maggiori programmi televisivi e radiofonici, la commercializzazione dei rapporti umani, le difficoltà di una scena musicale underground letteralmente soppiantata dai “talent”, la necessità di proposte coraggiose in ambito artistico e sociale: i fatti di Seattle, per noi, significano tutto questo.

 



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