Kalakuta Republik: la vita a pugni chiusi di Fela Kuti secondo Coulibaly
«Without a story we would go mad». La biografia di Fela Kuti è una di quelle storie fatte apposta per épater les bourgeois: un musicista con 27 mogli, impenitente fumatore d’erba ed edonista erratico, fonda in Nigeria una propria comune e fa di tutto per inimicarsi il governo militare che se ne sta seduto su una delle più grosse riserve di petrolio al mondo. Con l’uscita dell’album Zombie Fela attacca frontalmente l’esercito locale paragonandolo a non-morti addestrati per sparare a comando e scatena la reazione del regime. Nel locale-tempio del quartiere di Lagos dove ha raccolto intorno a sé reietti e prostitute – lo Shrine – i soldati torturano, violentano e uccidono numerose persone, fra cui l’anziana madre del musicista, che viene scaraventata fuori da una finestra. Così finisce nel sangue l’utopia della “Repubblica di Calcutta” (Kalakuta Republic), che Fela aveva costituito nel tentativo di realizzare il sogno di un Pianeta Nero unito e democratico, finalmente liberato dai soprusi neo-coloniali dell’Africa post-indipendenza.
Oggi che, a vent’anni dalla morte di questa celebrità così controversa, l’eredità di Fela rischia di finire “diluita” in una cartolina a tonalità menestrellesche che mostra un ghetto quasi epico, ad uso e consumo di quella stessa borghesia (bianca o nera) che Fela disprezzava tanto, la scelta del coreografo e danzatore burkinese Serge Aimé Coulibaly di raccontare, come un’eco, le sue gesta attraverso le metafore della danza rappresenta molto più di un semplice omaggio. Con l’ultimo progetto, Kalakuta Republik, coprodotto dalla sua compagnia Faso Dance Théâtre e dalle Halles de Schaerbeek, Coulibaly – che in 25 anni di carriera ha collaborato con grandi nomi della danza contemporanea, da Alain Platel a Sidi Larbi Cherkaoui – parte dal ritmo ipnotico dell’afrobeat di Fela per imbastire un’ode all’artista, al suo impegno civile, al suo desiderio di libertà, che riconduca il discorso alle reali contraddizioni del presente, in Africa come nel resto del mondo. Guerre, dittature, corruzione, miseria, disuguaglianze, razzismo: l’opera musicale di Fela, con i suoi testi infuocati scagliati come pietre contro l’architettura di paura dei sistemi repressivi, pervade i danzatori come un impulso indomabile, fornisce loro il pretesto per improvvisazioni interminabili e sfibranti, scuote i corpi fino a indurli in uno stato di trance affollato da segnali gestuali di cui Coulibaly (nei panni di Fela) è unico orchestratore.
«You always need a poet». Sullo sfondo del mitico Shrine, appena richiamato da un logoro divano arancione, da qualche sedia e da videoproiezioni in bianco e nero (di Eve Martin) che evocano slogans libertari, esodi di massa e città bombardate, sei danzatori di origine burkinese/camerunense (Antonia Naouele, Adonis Nebié, Sayouba Sigué, Ahmed Soura, Ida Faho, con la sola eccezione di Marion Alzieu) tremano, si scontrano, si piegano, cadono a terra, mimano atti sessuali, alzano i pugni al cielo in preda a un’estasi orgiastica che aumenta di tensione al ritmo sempre più affannoso e percussivo delle ibridazioni funk, jazz, highlife e youruba della musica di Fela. Attraversano la scena da una parte all’altra, ora insieme ora separati, sul viso e sugli abiti macchie colorate che parlano di esorcismi e oscuri rituali, mentre lo “stregone” Coulibaly/Fela dirige un po’ in disparte i loro corpi in vibrazione. «All that glitters is not gold». Ma Coulibaly, che attorno al suo eroe costruisce una drammaturgia densa ma tortuosa, cambia subito registro quando inizia la seconda parte della coreografia. L’atmosfera assordante, fumosa e disfatta di un night club dopo (prima?) una notte di bagordi catapulta lo spettatore nella tana decadente del musicista: sotto le luci della strobosfera, la danza si fa lasciva, volutamente erotica, qualcuno accenna una canzone con voce spezzata, qualcun altro pronuncia dichiarazioni contro il sistema («Un giorno sarò il presidente di questo Paese»). Poi la risata beffarda di Coulibaly/Fela squarcia il velo dell’ipocrisia risvegliando le coscienze: «Noi abbiamo paura, paura di batterci per la giustizia, per la libertà, per il futuro!», tuona col volto imbiancato di uno spettro del passato. In bilico tra la consapevolezza di un futuro universale inevitabile per l’umanità e la coscienza della palese minaccia di negare all’Africa un posto in tale futuro, il suo appello alimenta il fuoco del riscatto, il suo grido diventa un atto supremo di irriverente forza di volontà. Il male dei tempi moderni è la disuguaglianza, sembra volerci suggerire quando, al termine dello spettacolo, i danzatori sfilano in mezzo al pubblico portando sulle spalle le rispettive compagne: fra uomo e donna non c’è differenza, perché «she go say him equal to man / she go say him get power like man / she go say anything man do himself fit do» (Lady, 1972).
Visto a Torinodanza, Fonderie Limone, Moncalieri (TO) il 6 ottobre
Kalakuta Republic
coproduzione/prima italiana
Faso Dance Théâtre & Halles de Schaerbeek
ideazione e coreografia Serge Aimé Coulibaly
creazione e interpretazione Antonia Naouele, Marion Alzieu, Adonis Nebié,
Sayouba Sigué, Serge Aimé Coulibaly, Ahmed Soura, Ida Faho
creazione musica Yvan Talbot
creazione video Eve Martin
drammaturgia Sara Vanderieck
assistente alla coreografia Sayouba Sigué
scenografia e costumi Catherine Cosme
creazione luci Hermann Coulibaly
creazione suoni Sam Serruys