Jan Fabre e la scomodità della bellezza: “The Night Writer. Giornale notturno”
In Italia avevamo lasciato Jan Fabre dietro agli usi, costumi e manufatti belga di Belgian Rules/Belgium Rules, a dirigere una scena in cui aleggiava il fantasma conturbante di un teatro vivo e artaudiano. Proprio di Artaud, teorico, attore, regista e autore espressamente evocato dall’artista fiammingo nello spettacolo e che diede indirettamente un’enorme spinta a tutte le istanze più avanguardiste del teatro occidentale prodotto dalla metà del secolo scorso in poi, Fabre ha da sempre, nel suo profondo, inteso sposare le teorie, enfatizzando una dimensione rituale e orgiastica dell’azione scenica che, letteralmente, in quello come in molti altri suoi lavori, implodeva sul palcoscenico.
Con The Night Writer. Giornale notturno, di cui è insostituibile interprete Lino Musella, che abbiamo recuperato al LAC – Lugano Arte e Cultura di Lugano (LuganoInScena LAC – Lugano Arte e Cultura è infatti tra i coproduttori), recentemente passato sul palco del Teatro Politeama di Napoli, in procinto di andare in scena il 25 maggio al festival Primavera dei Teatri, prima di salire sul palco del Teatro Vascello di Roma, in ottobre, per il Romaeuropa Festival, Fabre, come mosso dalla stessa passione per una forma monologante che pure era stata adottata in passato, dirige stavolta ogni impulso creativo verso l’essenzialità dell’impianto visivo, lasciando che a predominare sia la parola autobiografica.
The Night Writer è infatti la raccolta dei diari di Jan Fabre scritti tra il 1985 e il 1991 (pubblicati in italiano in tre volumi da Cronopio Edizioni), che, in una totale fusione d’arte e vita, pagina e palcoscenico, comprende alcuni dei suoi scritti più importanti (Io sono sangue, L’angelo della morte, Drugs kept me alive tra gli altri). Senza rinunciare alla poesia del verbo, la parola di Fabre si fa in questo senso anche maieutica, rivelatrice di verità sull’arte tanto dal punto di vista individuale quanto universale.
Ogni vera bellezza è scomoda. Da Anversa scriveva questo Jan Fabre, il 31 dicembre 1991, in una delle tante pagine dentro cui si dipana una sorta di manifesto di pensiero, libero e politicamente scorretto, umano e intellettuale, artistico ed etico, che è impossibile per lo spettatore del 2019 non agganciare a quel lato oscuro della sua personalità, rimasta sotto i riflettori in Europa per le accuse di molestie sessuali nell’epoca del #metoo, ovvero quella in cui non semplicemente certi episodi accadono (perché la Storia ne conta moltissimi e non soltanto nell’ambiente artistico, dove sono comunque molto frequenti), ma vengono a galla e sono denunciati con maggiore probabilità da chi se ne sente vittima. Un’affermazione che, condensando tutte le risposte possibili alle domande del Fabre artista e uomo, muta in positivo il negativo.
Se la potenza dell’arte risiede nella propria coerenza, nella veemenza quasi pericolosa, minacciosa, del pensiero che si fa visione e azione, Jan Fabre non può essere considerato semplicemente un artista, ma rappresenta l’idea stessa di arte, la sua perfezione, il divino in senso platonico. E l’immaginario dell’artista, si confessa tra le pagine, ha un prezzo che serve a condurre il suo gesto – che sia performativo, intellettuale o visivo – oltre il quotidiano, il banale, il dato certo e rassicurante, e a trasferire tutto questo dalla sfera del profano a quella del sacro: Io sono un errore, perché voglio essere un errore, afferma Lino Musella, su una scena cosparsa di sale, un materiale che da un lato rimanda nel colore alla sabbia, a un deserto, e quindi all’isolamento vissuto dagli artisti; dall’altro, è fortemente elettronico sul piano chimico e suggella l’elevata differenza di elettronegatività tra due elementi legati da un reciproco sostanziarsi, due mondi simbolici, distanti e spesso apparentemente non comunicanti: la società e l’artista, il terreno e il divino.
L’arte, ancora, parafrasa Musella in scena, è «una ferita» su cui l’artista sparge il sale: brucia, ma quel bruciore è «ispirazione», qualcosa che soltanto attraverso il dolore può liberarsi e depurare. Dentro la parola di Fabre è sempre ben presente questo senso ascetico dell’arte. E infatti lo spettacolo, anche se non si può definire il prolungamento o la summa delle passate esperienze artistiche di Jan Fabre, si configura come una sorta di loro testamento, consegnato in modo viscerale, nudo e crudo, attraverso la condivisione di un rituale con gli spettatori, con i quali infatti non manca una situazione di coinvolgimento, chiamati a rispondere in coro al nonsense di un rosario attraverso cui si recitano, con un meccanismo à la «Ora pro nobis», i versi della canzone di Giovanni Lindo Ferretti Amandoti (1990).
Con un impianto visivo che porta l’immagine all’osso, la parola che la fa da padrona nella composizione, ovvero quanto di più lontano si potrebbe intendere dal “fabresco”, The Night Writer è lo spettacolo di Jan Fabre che non ti aspetti. Ed è forse per questo motivo, per questa nostalgia del “fabresco”, che non sentiamo di trovarci davanti a un capolavoro. Tuttavia, l’asciuttezza visiva possiede un contr-altare efficace in quella parola così intima, pronunciata intensamente e incarnata da Musella, straordinario nel calibrare atteggiamenti ed espressioni che rinviano, più che all’uomo all’icona, all’immagine idealizzata del Fabre artista. Se da una parte, e per fortuna, Lino Musella non “interpreta” Jan Fabre e ne diviene, piuttosto, lo strumento, il medium; dall’altra, al contrario di ciò che ci si aspetterebbe, nessun interprete sarebbe stato più idoneo ad approcciare in un modo così raffinato e sottile le sue parole, muovendosi proprio in quella zona liminale, di scarto tra il sé-attore e l’artista-Fabre, che allora diventa ombra, fantasma evanescente, eppure concretamente visibile alle spalle come una sagoma, piena dello stesso Musella.
[Immagine di copertina: foto di Gianluca Di Ioia]