#Ivrea50. Part I. Nuovo Teatro: la storicizzazione e il problema dello schieramento
Prima parte del reportage sugli argomenti più discussi al Convegno “Ivrea Cinquanta” che si è svolto a Genova tra il 5 e il 7 maggio
A Genova, dal 5 al 7 maggio, il Palazzo Ducale ha ospitato tre giornate di studio sul passato, presente e futuro di un momento cruciale del teatro italiano del ventesimo secolo conosciuto dagli studiosi come il Convegno di Ivrea. Un evento storicamente complesso, dal nome di convenzione e legato a episodi precedenti, perché di fatto si svolse presso il Centro Olivetti del comune piemontese di Palazzo Canavese, cinquant’anni fa esatti, tra il 10 al 12 giugno 1967. Lì si provò a riconoscere la nascita di un nuovo linguaggio, di una nuova sintassi della scena, che veniva rifondata a partire dai suoi elementi costituivi (suono, spazio, attore, immagine, ecc.). “Nuovo Teatro”, non a caso, fu salutato l’insieme di fenomeni, spettacoli, degli artisti che all’epoca stavano reinventando l’estetica a partire dall’etica, professando, cioè, il rifiuto delle convenzioni e degli spazi identificativi del teatro istituzionale o di regia, di un teatro praticamente testo-centrico.
Al Convegno di Ivrea presero parte, fra gli altri, Carmelo Bene, Carlo Quartucci, Mario Ricci, Leo de Berardinis, Eugenio Barba, Giuliano Scabia. Mezzo secolo dopo, a “Ivrea Cinquanta” abbiamo ritrovato, non senza un po’ di commozione, alcuni di quei grandi nomi: Giuliano Scabia, Carlo Quartucci, ma anche una statuaria e raffinata Carla Tatò, sempre fiancheggiante il secondo come fossero stati, fin dentro il midollo, due entità speculari e senza tempo, amabili proiezioni di quei personaggi beckettiani centrali nella storia del percorso artistico che hanno condiviso.
Con loro, per loro, e per fare un bilancio di cinquant’anni di Nuovo Teatro, un folto gruppo di studiosi, in buona parte proveniente dall’Università di Bologna, essendo stata questa preziosa occasione di incontro l’esito di una proposta lanciata dal Prof. Marco De Marinis, circa un anno fa, ai direttori artistici di Teatro Akropolis, Clemente Tafuri e David Beronio.
Cerchiamo in questa sede di riassumere quali sono stati i punti di contatto tra i diversi interventi che hanno riguardato la storicizzazione del fenomeno, per poi proseguire, altrove, con alcune osservazioni emerse sulla scena degli ultimi decenni e su quella attuale; ma prima di fare ciò, partiamo da una piacevole sorpresa che ha anticipato l’apertura di “Ivrea Cinquanta”.
Un «miracolo»
Poco prima dei saluti istituzionali di Carla Sibilla (Assessore Cultura e Turismo del Comune ospitante), Luca Borzani (Presidente di Palazzo Ducale – Fondazione per la Cultura), Roberto Cuppone (Università di Genova) e il curatore De Marinis, un segno del tutto incidentale ha anticipato l’inizio ufficiale del palinsesto: un «miracolo». A chiamarlo proprio così è stato Giuliano Scabia, che ha attirato l’attenzione dei presenti per condividere con loro un saluto intimo, inatteso e propiziatorio, a una delle persone giunte ad ascoltare i vari interventi della giornata, Paolo Ielli, attore che era nel suo Gorilla quadrumàno e residente a Genova. «Era il 1974…», ha precisato Scabia, con un tono di voce sospeso a metà tra gioia e malinconia, mentre in mano reggeva una testimonianza di quella mutua collaborazione, il libro con il testo edito dello spettacolo aperto su una pagina in cui compare il nome dello stesso Ielli.
Giuliano Scabia: «presi l’Università come fosse stato un teatro»
Quale prologo migliore alle Testimonianze di apertura al Convegno. Qui lo stesso Giuliano Scabia ha dialogato con Marco De Marinis, che lo ha introdotto ricordando l’importanza storica del Convegno di cinquant’anni prima, visto sotto certi aspetti come il tentativo di «uscire dall’establishment teatrale». Da quel punto di vista, Scabia può essere considerato un modello ineguagliabile: un poeta rivoluzionario della pratica teatrale, che continua a far luce sul lavoro dei teatranti in contesti di disagio sociale, che ha fatto della teatralità uno strumento di liberazione individuale e collettiva. «Il progetto dell’universo è la vita, per questo vale la pena essere immortali»; sono state, non a caso, le parole conclusive del suo discorso, che hanno strappato all’uditorio un lungo e sentito applauso. Ovunque sia passata la sua figura di artista, dalla fine degli anni Sessanta a oggi, e indifferentemente dal luogo in cui ha operato, Scabia ha seminato il Teatro, e lo ha fatto in modo assolutamente naturale, spontaneo, secondo un metodo induttivo, sperimentando le azioni e le tecniche attraverso cui poter intervenire sulla realtà. E così è stato anche all’Università, come ha raccontato a De Marinis: «Presi l’Università come fosse stato un teatro, continuavo a fare tutto quello che facevo prima…». Con quella straordinaria umiltà e lucidità di analisi che lo contraddistinguono, tipiche di chi riesce a osservare con distacco gli avvenimenti vissuti, Scabia ha ricordato che il Convegno di Ivrea del ’67 costituì un momento per interrogarsi sul senso del proprio lavoro artistico, e quindi sulla vita stessa delle persone protagoniste di quel mutamento estetico.
Lorenzo Mango: il problema dello schieramento
La necessità di assumere uno sguardo “distaccato” è stato uno dei temi principali dell’intervento di Lorenzo Mango, durante la prima sessione dedicata a “le parole e la storia”, gravitante attorno a un problema lessicale, ovvero all’utilizzo di termini come Avanguardia e Nuovo Teatro (con le lettere maiuscole), dove non sono mancati riferimenti a Franco Quadri e al sentimento che ha animato la sua curatela dei materiali (1960-1976) dei due volumi pubblicati da Einaudi (1977), ancora oggi fonti di conoscenza imprescindibili se si vuole compiere una ricognizione storica del teatro di quegli anni.
Il motivo essenziale per cui ancora c’interroghiamo sulla portata di certi eventi, suggerisce Lorenzo Mango, risiede nel problema dello «schieramento» che essi comportano. Tra gli studiosi, tra gli artisti, nuove posizioni emergono e si scontrano, provocano micce. E qui, chi sta scrivendo ora si riserva una postilla: come non pensare per ciò che concerne la storiografia, per esempio, al recente e pure corposo Nuovo Teatro Made in Italy – 1963-2013 di Valentina Valentini, e alla diatriba con lo stesso De Marinis, in cui, però, da entrambe le parti manca un reale piano di confronto?
«Passano gli anni – ha affermato Mango, facendo appello dunque alla dimensione diacronica e non sincronica – e la storia di un gruppo ristretto di persone diventa una storia sempre più plurale, che necessita un’analisi stratigrafica riguardante il rapporto con le generazioni precedenti». «Il Nuovo Teatro mi è servito per fare una “doccia metodologica”», ha poi puntualizzato, aggiungendo che «la distanza consente una leggibilità storica che aiuta a capire il fenomeno», la cui carica innovativa viene fatta coincidere con la creazione, per la prima volta dai tempi della nascita della regia teatrale, di una dialettica tra la teoria e la prassi; e, nello specifico, «la prassi di un linguaggio di cui sono stati rotti i codici», la più grande eredità, secondo Mango, che il Convegno di Ivrea abbia consegnato alle generazioni successive.
Stefano Casi: il Nuovo Teatro e la “critica alla centralità”
Interessante, e sulla stessa linea di pensiero, anche il punto di vista di Stefano Casi, per cui «di “nuovo”, nel Nuovo Teatro, c’è che ha messo a disposizione di molti competenze che erano appannaggio di pochi protagonisti». La differenza tra il “Nuovo” teatro e quello “vecchio” consiste, dal suo punto di vista, nel farsi strada di una «critica alla centralità»: in sostanza, in una forza centrifuga chiamata indirettamente in causa dalla scrittura scenica, che lascerebbe configurare il teatro di Carmelo Bene, per esempio, come un teatro «ego-centrico», in opposizione alla forza centripeta della regia teatrale. Il Nuovo Teatro, dunque, per Casi ha fissato altri tipi di centralità (un altro esempio potrebbe essere dato dalla funzione drammaturgica che hanno assunto gli spazi preesistenti nella pratica del decentramento), e il suo primo, concreto, sintomo di affermazione potrebbe essere fatto coincidere con il riconoscimento dei “centri di produzione teatrale” avvenuto nel 1983. «Il Nuovo Teatro – insomma – non è più nuovo né più giovane, ma si merita decisamente le iniziali maiuscole».