Arti Performative

Isola Teatro // Friendly Feuer – Una polifonia europea

Renata Savo

Al Teatro India di Roma è andato in scena uno spettacolo che affronta a più voci il tema della Grande Guerra. Diretto da Marta Gilmore, Friendly Feuer porta in scena una ricerca appassionata sui traumi di una “generazione silente”


 

Un suolo di carta bianca su cui scrivere messaggi a parenti e amici: grida disperate di aiuto o prematuri addii si perdono, nel silenzio di una terra coperta da un lenzuolo di carta candida come neve, che accoglie nel suo grembo cadaveri, resti umani e sangue.

Friendly Feuer del collettivo Isola Teatro non è il solito spettacolo sulla Grande Guerra che della storia sceglie di farsi portavoce assumendo un punto di vista e percorrendo un solo binario. Sulle scene contemporanee spesso si vedono monologhi, narrazioni, drammatizzazioni di episodi ispirati a fatti reali, storie d’amore e di amicizia poco conosciute nate sullo sfondo del primo conflitto mondiale. Friendly Feuer, però, non è nessuna di queste cose, rappresenta una polifonia composta di piccoli frammenti, che possono essere incollati tra loro oppure restare isolati e interessanti comunque. “Una polifonia europea”, infatti, il sottotitolo di questa ricerca appassionata e appassionante, che adotta un approccio originale, persino innovativo: la regista Marta Gilmore ha guidato gli attori (Eva Allenbach, Tony Allotta, Armando Iovino, Marta Gilmore, Vincenzo Nappi) verso la creazione di una scrittura collettiva, che non rappresenta la storia, ma la espone, come un oggetto museale o un reperto archeologico, dentro una partitura drammaturgica aperta, che mette in gioco la costruzione di una pluralità di punti di vista.

Gli attori non sono dramatis personae, ma “attanti”, dunque player, nel senso più ampio del termine: recitano, suonano una parte all’interno della polifonia. Sono voci di un canto polimorfo e poliglotta – italiano, francese, tedesco – unite dalla lingua comune del teatro. Per moltissimi degli arruolati, di cui queste figure in scena costituiscono il riflesso, la guerra è stata una scelta obbligata, una violenta coercizione culturale attraverso cui si può rileggere l’Europa non come culla, bensì come «colpa della Civiltà». Se solo avessero potuto, la guerra l’avrebbero rifiutata. “Disertori” li chiamavano, “traditori”: una contraddizione pesantissima per la civile Europa, sfondo di tante storie scritte e taciute come romanzi di verità serrati in un cassetto e mai più riaperti. «Io sono uno famoso in Italia, mi stanno aspettando tutti, la mia foto è sui giornali», afferma l’attore più giovane, Vincenzo Nappi; la sua è la voce attraversata dalla paura, di uno dei tantissimi caduti consapevoli della fragilità umana dinanzi alla morte annunciata, che in un inglese infarcito di italianismi immagina la sua morte e la incarna con il pensiero e l’azione.

Queste ombre restano in disparte, ai margini, in attesa che – volenti o nolenti – arrivi il momento di intervenire. «Bisogna essere pronti all’azione»: per loro è una frase da intendere nel duplice significato, di arruolarsi e recitare. Arruolarsi, d’altronde, significa assumere un ruolo (del nemico, del reduce, dell’eroe, del caduto), e nella koinè del teatro questo si traduce in gioco. Gli attori-player giocano infatti, tra loro e con lo spettatore: la guerra di trincea, sotto l’effetto della magia teatrale, diventa una lotta a colpi di carta stracciata, su un campo di battaglia che – come il testo drammatico – è un terreno da esplorare con attenzione e senso critico. Perciò nella seconda parte dello spettacolo l’azione cede il posto al dovere della divulgazione. La performance prende la piega di una conferenza, presenta una parte infinitesimale dei materiali reali – tra questi, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano 1915-1918 di Bruna Bianchi – che sono stati alla base del lavoro, e la visione di filmati sugli effetti della nevrosi da combattimento, proiettata alle spalle, è per lo spettatore una scossa elettrica nel fianco. La stessa regista, poi, scende anche lei in campo, per illustrare da un archivio on line alcune emblematiche testimonianze dei writers fighters: poeti, letterati combattenti che nella scrittura assaporavano l’illusione di riuscire a esorcizzare la paura. Erano soli davanti all’orrore, ma dentro i loro corpi trascinati a forza dietro le trincee si facevano calore grazie a una piccola fiamma accesa da un istinto innato, la scrittura: la risposta al magro conforto di provare a lasciare nel tempo, a qualcuno, una traccia di sé e, soprattutto, di quell’orrore.

 

 

 

 

 


Dettagli

  • Titolo originale: Friendly Feuer

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