Arti Performative Focus

IOU Theatre. Solco in terra inglese di un teatro tra realtà e immaginazione

Marilena Borriello

Scopriamo che cosa fa da oltre quarant’anni il gruppo inglese dello IOU Theatre residente ad Halifax, in Inghilterra, attraverso le parole del suo stesso fondatore David Wheeler, che abbiamo intervistato

«Abbiamo scelto di chiamarci IOU Theatre senza una ragione precisa. Nel 1976, quando abbiamo fondato il nostro gruppo, l’unica preoccupazione era mettere insieme diverse competenze e ampliare i limiti che generalmente circoscrivono i generi artistici. L’obiettivo era rivedere il concetto di teatro: un’idea assurda in quegli anni e in un paese come l’Inghilterra, dove il nome di Shakespeare rappresentava ancora un esempio schiacciante».

David Wheeler presenta così lo IOU Theatre, il suo gruppo fondato quarantuno anni fa nel nord d’Inghilterra e diventato noto per l’originalità e il carattere innovativo dei suoi lavori: collaborazioni occasionali con poeti, artisti visivi, performer e musicisti, attività eterogenee che spaziano dalle installazioni luminose, sonore, video, fino a comprendere il teatro site-specific e di strada.

«La mia generazione – dichiara Wheeler – è cresciuta credendo che fosse possibile fare teatro in un milione di altri modi. In quegli anni, il nostro gruppo insieme a pochi altri ha contribuito a reinventare un concetto, a creare un nuovo vocabolario».

Se è vero che lo IOU Theatre si differenzia da un teatro in cui generalmente il testo drammatico, l’organizzazione dello spazio, l’uso della scenografia, delle luci e di altri espedienti contribuiscono a definire un filo narrativo, sarebbe sbagliato credere che esso sia il risultato di una rottura radicale con il teatro. L’attività del suo gruppo non nasce dalla volontà di “rompere con la tradizione”, semmai di svilupparne e indagarne le potenzialità espressive e comunicative.

L’intera attività dello IOU Theatre sembra, infatti, insistere soprattutto sul ‘visivo’, sulla libera osservazione e sulla stimolazione della percezione, tanto da richiamare alla mente il ‘teatro delle immagini’ (The Theatre of Images) di Bonnie Marranca, una definizione che la studiosa americana coniò intorno alla fine degli anni Settanta per identificare un teatro – quello di Robert Wilson, Richard Foreman e Lee Breuer – che allora iniziava a utilizzare una nuova grammatica visiva «determinata da sofisticati codici percettivi». Un teatro, insomma, che mirava all’immediatezza di senso e a fare della percezione un’esperienza emotiva e sensibile prima ancora che intellettuale.

Con il teatro delle immagini postulato da Marranca, lo IOU Theatre condivide quel carattere ibrido che induce lo spettatore non a focalizzare l’attenzione e lo sguardo su un unico punto, ma al contrario a ‘costruire’ la propria visione.

Eye Witness (2001), per esempio, è una video-installazione commissionata dal centro d’arte Tramway di Glasgow costituita da cinque diverse grandi scatole, all’interno delle quali dei video a grandezza naturale mostrano delle persone comuni intrappolate in situazioni di pericolo, in bilico tra vita e morte. Sul soffitto di una di queste scatole-contenitore è proiettata l’immagine di una donna che, aggrappata a un’impalcatura, urla in cerca di aiuto. In un’altra scatola, invece, dalla griglia del pavimento piastrellato (anch’essa una video proiezione) sbuca il volto di un uomo sott’acqua, che si dimena nel tentativo di trovare una via di uscita. Passando da una situazione all’altra, l’osservatore è immerso in una dimensione sgradevole e angosciante perché intrappolato in un frangente decisivo: un suo intervento potrebbe salvare quelle persone, ma di fatto non può agire. «Eye Witness è stato un esperimento per mostrare quali possono essere gli effetti e le reazioni dinanzi a situazioni così sgradevoli. Solitamente però non isoliamo lo spettatore come abbiamo fatto in questo progetto», racconta Wheeler. Sebbene l’osservatore sia in una posizione non confortevole, tuttavia, il disagio che talvolta può provare è una condizione abilmente orchestrata per permettergli di utilizzare meglio il proprio spirito di osservazione, di riappropriarsene. In altri termini, il fine è attivare la sua immaginazione per andare oltre quanto sta vedendo e di elaborare così una lettura personale degli stimoli che riceve.

Un altro esempio è House (1982), una performance site-specific realizzata a Londra in una casa abbandonata, dove il confine tra reale e irreale diventa impercettibile. Lo spettatore, seduto nel giardino esterno, è fatto accomodare idealmente su questa sottile linea di confine, dalla sua posizione si vede e si sente solo parzialmente cosa sta succedendo all’interno dell’abitazione: una madre che litiga con il figlio, un uomo che si lava i denti, uno scarico del bagno; o si assiste alle situazioni improbabili che si alternano al suo esterno: un angelo che scende dal tetto, una banda di tre musicisti che entra ed esce dalla casa. Da lì, però, si continua a percepire ciò che avviene come il flusso della vita reale, o almeno così pare; ma, a ben vedere, non è assodato che, in strada, un ragazzo a passeggio o una donna con la busta della spesa non siano parte della performance. Ne deriva una dimensione sospesa tra realtà e immaginazione; lo spettatore la attraversa senza avere la certezza di comprenderne il senso, anche perché non vi è un messaggio preciso o una morale finale.

«Il viaggio è un’idea ricorrente nei nostri lavori, ma quest’aspetto non va inteso come l’attraversamento di una storia preimpostata. Il viaggio che intendiamo offrire non ha una destinazione chiara. Noi vogliamo che il pubblico cerchi di risolvere le contraddizioni dinanzi alle quali è posto, per farne esperienza».

Questa idea è ben rappresentata dalla loro nuova produzione, Rear View, il cui debutto ormai prossimo è previsto per fine maggio 2017, a Norwich (dal 25 al 28, The Great Hospital). Qui, un tradizionale ‘double decker’ inglese, un autobus a due piani, modificato per consentire un’insolita esplorazione della città, con i sedili rivolti verso il retro dell’autobus, condurrà quaranta spettatori muniti di cuffie, ad assistere e ascoltare quanto sta accadendo nella vettura che li precede, all’interno della quale – durante la giornata – sei performer si alterneranno, contribuendo a sovrapporre lo spazio reale della città a quello immaginario della performance. In Rear View «lo spettatore deve cercare di trovare il senso di questo viaggio, capire qual è il mondo reale – Wheeler conclude – dalla prossima estate probabilmente inizieremo a presentare questo lavoro in Europa, forse anche in Italia, ammesso, però, che non sia io a guidare!».

Aspettiamo allora che questo progetto si realizzi, certi del fatto che Rear View sia un viaggio che valga la pena di fare… chiunque ne sarà l’autista.



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