Arti Performative Dialoghi

Intervista a Marco Corsucci e Matilde Bernardi in scena con “Mine-Haha, ovvero dell’educazione fisica delle fanciulle” al Romaeuropa Festival

Renata Savo

È in scena fino a oggi, 3 novembre, al Mattatoio a Roma per il Romaeuropa Festival (ore 16.00) Mine-Haha, ovvero dell’educazione fisica delle fanciulle di Marco Corsucci (anche regista) e Matilde Bernardi (anche interprete), un progetto vincitore della seconda edizione del Premio Silvio d’Amico alla Regia realizzato dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico in collaborazione con Romaeuropa Festival.

Il lavoro si sviluppa dall’omonimo romanzo di Wedekind Mine-Haha, ovvero dell’educazione fisica delle fanciulle che viene presentato dal suo autore come un manoscritto che gli è stato consegnato da una sua vicina di stanza, l’ottantaquattrenne insegnante in pensione Helene Engel, che circa tre settimane prima si è suicidata gettandosi dalla finestra. Il testo è un diario di memorie fittizie di Helene Engel, chiamata Hidalla nel parco, e ripercorre, a distanza di anni dalle vicende narrate, la vita della donna dalla sua primissima infanzia fino all’adolescenza.

In un grande parco, disseminato di case basse coperte di rampicanti, centinaia di fanciulle vengono educate a sentire il proprio corpo, a farne uno strumento di assoluta, armoniosa eccellenza. Il mondo esterno non ha alcun contatto diretto con questo parco, ma lo finanzia, in attesa di accogliere le fanciulle che vi sono ospitate.

Abbiamo parlato del lavoro di restituzione scenica di questo testo enigmatico come il suo titolo – che riprende un nome femminile indiano – con i due giovani artisti.

Come, quando e dove è nato l’incontro con il testo di Wedekind? Che cosa vi ha colpito di questo testo?

Matilde Bernardi: Stavamo passeggiando sul Viale delle Province [in zona Piazza Bologna a Roma, ndr], correva l’anno 2020-21, dopo la prima ondata Covid-19. Qui incrociavamo spesso un banchetto di libri usati, dove eravamo soliti fermarci a cercare qualcosa. Un giorno sono stata colpita dall’immagine di copertina di un libro edito da Adelphi particolarmente consunto: in copertina c’era un quadro che ritraeva una giovane donna e il titolo Mine-aha. Solo dopo leggo ovvero dell’educazione fisica delle fanciulle e ancora dopo leggo il nome dell’autore, Frank Wedekind, che era un nome che tornava dentro la formazione, in particolar modo, di Marco. Mi dico «Bello! Compriamolo». Dopo averlo letto, istintivamente e senza aver ancora compreso esattamente che cosa avessi letto dico a Marco «Leggilo anche tu, perché secondo me ti interessa… Ci interessa». E così è stato. L’incontro con il testo è avvenuto più volte e ogni volta in cui è avvenuto il rapporto con la lettura si è segnato un passaggio del percorso stesso. Nel senso che la prima volta in cui ho letto il testo ne ho intuito la vicinanza e il potenziale, ma è come se non l’avessi colta completamente perché – come dice Roberto Calasso nella postfazione a libro – il testo stilisticamente è poco interessante, nasconde la sua forza sotto l’increspatura dell’acqua, del laghetto che sta all’interno di questo grande parco esistente nel libro. La seconda lettura mi ha fatto percepire tutta la mostruosità del testo e in particolar modo la violenza a cui questi corpi, in modo del tutto inconsapevole, vengono sottoposti, la violenza della narrazione stessa. La terza volta in cui ho letto il testo alcuni frammenti, che poi sono quelli che hanno mosso tutto il lavoro ben più dell’impianto narrativo, mi hanno impressionato perché ho avuto come la sensazione che avrei potuto scriverli io, in maniera anche qui completamente intuitiva perché ho scoperto di aver potuto rintracciare nella mia formazione degli istanti in cui il mio sentire corrispondeva a quello narrato nel testo (per quanto il testo sia narrato in modo finzionale e in prima persona da un autore). In questa triplice frammentazione, poi, si è radicato il nostro lavoro.

Marco: Ciò che mi ha personalmente colpito del testo sono due caratteristiche per me fondamentali: la dolcezza e la violenza. Quando poi queste due cose si combinano insieme esplode in me sempre un enorme interesse. In particolare, rispetto alla violenza, l’abbiamo un po’ legata allo sguardo. Questa almeno è stata la mia porta di accesso al testo: il rapporto che queste fanciulle hanno con il guardarsi, con il guardare e con l’essere guardate e come esso permea la loro intera educazione in vista di quello che poi sarà l’appuntamento in teatro e con quegli uomini che saranno i loro compratori. Ci ho riconosciuto una forma di violenza che riguarda anche me, un’educazione che non si rivolge esclusivamente al corpo ma si rivolge principalmente allo sguardo. Mi sono quindi chiesto come guardo quando guardo e, soprattutto, come guardo quando guardo ad un corpo femminile. Abbiamo allora cominciato a problematizzare questa questione in un dialogo simile alla conversazione fittizia tra l’autrice – essa stessa fittizia – Helene Engel e l’autore, Frank Wedekind…

Matilde: …conversazione che nel nostro caso è reale, con tutto ciò che ne deriva.

Lo spettacolo viene da voi definito «un’indagine sull’identità e sull’atto del guardare per investigare i rapporti di potere che corrono tra chi guarda e chi viene guardato»: quali rapporti di potere corrono tra chi guarda e chi viene guardato? E in che modo in questo lavoro raggiungete l’obiettivo di descrivere questi rapporti?

Marco: Non sappiamo, innanzitutto, se raggiungeremo l’obiettivo. Stiamo cercando di indagare i rapporti tra chi guarda e chi viene guardato rintracciando questi rapporti di potere nello sviluppo e nella crescita di un corpo femminile. Alla radice di questa indagine c’è un desiderio di rendere tematico il ruolo dello spettatore per raccontare come la storia di un corpo abbia a che fare con tutti coloro che lo hanno guardato. Andiamo quindi a rintracciare – come dice Wedekind nel testo – attraverso quella voce femminile tutte le immagini e impressioni che per noi sono rimaste in qualche modo nella memoria di un corpo, che per noi corrispondono a delle ferite, a dei segni, a delle violenze, anche quando queste non si sono manifestate in quanto tali o non lo sono state in maniera del tutto esplicita. È ciò che abbiamo cercato di fare sia in fase di processo sia durante lo spettacolo: mettere di fronte allo spettatore questo sviluppo cercando di problematizzare ogni punto di contatto all’interno della crescita di un corpo inserendo tutti quei momenti in cui quel corpo è stato cambiato da uno sguardo, facendolo ovviamente in diretta con qualcuno che in quel momento sta guardando a quel corpo. 

Matilde: Per quanto riguarda la prima parte del lavoro, nel ripercorrere il cammino di crescita passo dopo passo, anche in modo didascalico, viene attribuita allo spettatore stesso una parte in continua mutazione in questo gioco: può rappresentare diverse figure che hanno costellato la crescita di un corpo femminile. In questo caso mi attribuisco chiaramente una responsabilità: il testo è profondamente datato, è scritto tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, tante cose sono cambiate – grazie al cielo! – e tante cose sono cambiate forse anche solo in questi ultimi tre anni in cui noi abbiamo affrontato il lavoro. Rimane, e su questo ci interessa mettere l’attenzione, il come purtroppo la parola “femminile” definisca l’identità di una bambina o di una ragazza che si identifica come tale e la definisce spesso costringendola all’interno di un sistema estetico, principalmente educativo, che si riflette sul portare il proprio corpo nel mondo. Ci interessa evidenziare questa dinamica che ancora oggi purtroppo esiste – anche se metterla in luce vuol dire che già qualcosa si sta muovendo – per problematizzarla, cioè per indicarla come, appunto, un sistema violento che a volte definisce l’identità a discapito dell’individuo stesso.

Ci sono, quindi, dei legami con l’attualità?

Marco: Più che altro, come dicevo, trovo che il testo sia assolutamente datato: datato il punto di vista maschile sul corpo femminile, datata l’idea di femminilità… ora, proprio perché è datato, penso che ci consenta un riverbero interessante su quella che chiamiamo attualità: per noi l’attualità è sia nel nostro modo di portarci, sia in ciò che concerne il nostro passato prossimo, la nostra educazione. Siamo ancora abbastanza giovani, ci rifacciamo quindi ai nostri fine anni ’90/primi anni 2000, che sono quelli in cui noi siamo cresciuti. La cosa per noi illuminante è come alcune parole, alcuni passaggi, ma soprattutto il rapporto che noi abbiamo potuto avere nella lettura di questo testo, nell’osservare questo corpo, nell’osservare questa crescita, nell’indignazione anche, se vuoi, che quantomeno io ho provato per un sistema in cui Wedekind ha scelto di inserire questo personaggio femminile fittizio, riverberino nonostante tutto. Trovo straordinario, sia nel senso positivo sia negativo del termine, questo vincolo che ancora ci lega a un passato che pure riconosciamo come datato.

Marco: Sì, sono d’accordo sul fatto che il testo sia sicuramente datato ma abbia dei riverberi sul presente e sull’attualità molto forti, nel senso che per quanto fortunatamente, come dice Matilde, siamo distanti da una certa educazione “proibitiva”, nonostante l’educazione non sia più così proibitiva, essa ha radici da qualche parte e noi le abbiamo rintracciate, in qualche modo, lì. Crediamo che contenga delle tematiche oggi sicuramente scottanti o almeno scottanti per noi e in cui ci siamo totalmente riconosciuti.

Matilde: Aggiungo che abbiamo parlato di corpo femminile, ma essendo fortunatamente molto più avanti rispetto al dialogo e alla percezione del genere, in realtà tutto ciò investe chiunque trasversalmente, al di là di ciò che è e di ciò in cui si identifica; riconoscere che investe tutti è, anche questo, qualcosa che investe l’attualità.

 



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