Intervista ad Elena Arvigo, in scena a Roma con 4:48 Psychosis di Sarah Kane
In scena in questi giorni e fino a domani 6 novembre, 4:48 Psychosis di Sarah Kane, con Elena Arvigo diretta da Valentina Calvani, una produzione Teatro delle Donne che va in scena all’interno degli spazi dell’associazione culturale Teatroinscatola, che ha aperto con questo spettacolo la rassegna Omaggio a Sarah Kane.
In questa occasione, e in attesa di vedere anche il 26 novembre a Roma (Villa Torlonia) l’applaudito – due settimane fa a Napoli – I monologhi dell’atomica di Svetlana Aleksievich portati in scena dalla stessa Elena Arvigo, le abbiamo fatto qualche domanda. Originaria di Genova, e con alle spalle una solida formazione da danzatrice e un diploma di attrice al Piccolo Teatro di Milano, si dice profondamente legata all’Inghilterra, terra in cui, dopo aver vissuto tra i diciotto e i ventitré anni, fa da due anni ritorno, perché – precisa – «in cerca di fili che ci portino lontani dai nostri confini». Per questo motivo ha da poco fondato una sua associazione culturale, Santa Rita Teatro: «per me è diventato importante acquisire un’identità che non sia soltanto quella di attrice. Santa Rita è la Santa dei miracoli impossibili, e fare teatro e cultura in questo paese è un po’ una missione impossibile. Mi piace l’idea che qualcosa sia “prodotto da Santa Rita”. Ed è come se sentissi fortemente il bisogno di avere una casa».
Hai alle spalle una formazione anche da danzatrice, come ti sei avvicinata al teatro e chi consideri i tuoi maestri?
La danza è stata la mia prima passione. Ho iniziato a fare danza classica a quattro anni, a Genova, con Giannina Censi che non mi rendevo conto di chi era, poi, curiosando, una volta a Londra ero davanti al Laban Center e ho visto un grande poster dove c’era scritto “Giannina Censi, danzatrice futurista”. E lì mi sono resa conto che avevo studiato con una grande danzatrice. Poi mi sono avvicinata al teatro, in sostanza perché la mia non è una famiglia di artisti di mestiere, e quando la mia insegnante mi aveva poi fatto fare i provini alla Scala e mi avevano preso, mi avevano effettivamente fatto riflettere a tredici anni sul fatto che avrei dovuto fare tutto per la danza, scegliere il liceo coreutico, ecc., invece poi ho fatto il liceo classico. Al teatro mi sono avvicinata “di nascosto”. Diciamo che mentre fare la ballerina era un po’ il “sogno”, fare l’attrice non me lo sono mai detto, però la scelta sicuramente nasce come atto di libertà rispetto a quello che avrei dovuto fare, perché vengo da una famiglia in cui si studia, avrei dovuto fare il liceo classico… già il fatto che a me che è sempre interessato l’essere umano, come funzionano le persone, che cosa abbiamo dentro, il fatto che volessi studiare psicologia anziché psichiatria non era visto benissimo. A me è sempre interessato quello che c’è dentro le persone e il come funzionano, come i maschi che smontano le motorette o gli orologi e poi li rimontano. Sono andata via da Genova, che mi era stretta, e sono andata a Londra, dai diciotto ai ventidue anni, come visiting student alla Goldsmith University dove studiavo psicologia e recitazione e intanto avevo ripreso a ballare al Laban Center. Ero lì a Londra anche fidanzata con un ragazzo inglese e quando ci siamo lasciati sono tornata, forse sbagliando, come quella famosa battuta che dice “Una volta ho incontrato un tizio che si buttava dentro un cespuglio di cactus e gli ho chiesto perché?, e lui: mi era sembrata una buona idea!”. Tornando mi ero fatta riconoscere tutti gli esami della Goldsmith, e poi avevo conosciuto una ragazza che faceva un corso di recitazione a Genova, che mi disse: “Guarda, secondo me devi assolutamente fare l’esame al Piccolo”. E così fu, ci iscrivemmo insieme, ma ero una che non sapeva neanche chi fosse Giorgio Strehler, un’appassionata, ma di libertà, di trovare cose che fossero una forma espressiva e che mi dessero una speranza diversa rispetto al futuro che vedevo. E infatti ricordo che tutti ridevano quando dicevo «Non voglio fare i tre anni, voglio fare un anno e poi andarmene a Berlino!». La chiave di alcune scelte risiede secondo me nel fatto che bisogna seguire le orme della vita, la parte inconscia di quello che ci muove, come dice David Lynch in Perdersi, un libro meraviglioso e per me molto importante, che rispecchia il suo modo di fare cinema, ma anche di stare nella vita: lasciar respirare l’inconscio, perché altrimenti si è sopraffatti dalle risposte.
Mio maestro, riferimento imprescindibile, è sicuramente Strehler, e mi ritengo fortunata di averlo conosciuto e ancor più che sia avvenuto così, quasi per caso. Ho capito con chi stavo studiando grazie alle parole degli altri, ed era uno di quei maestri non “del teatro”, ma proprio “della cultura” dell’Europa dello scorso secolo; era come Freud per uno psicologo, non puoi prescindere dalla sua figura. La cosa che trovo confortante, ancora adesso, è questo teatro come “fatto umano”, il Piccolo, nelle sue intenzioni, parla al popolo del popolo: tutto il valore di ogni segno della sua storia, il fatto stesso che era un posto in cui venivano torturati i partigiani e hanno deciso di farne un teatro, riflette una forza, un pensiero. Mi ritengo molto fortunata di aver iniziato dal Piccolo, perché oggi faccio teatro off e per me il Piccolo è stato un punto di partenza, mentre per altri, che partono dal teatro off, entrare a studiare in un luogo prestigioso vorrebbe essere un punto di arrivo. Alcuni maestri li conosci, altri semplicemente li incontri, come Peter Brook: uno di quelli che ti lasciano un seme, con quel metodo che sempre parte dalle persone, dal fatto umano. Ronconi per esempio è stato interessante perché tutto quello che non mi piaceva lo faceva lui (io ho studiato nel triennio che è stato di passaggio, dal ’96 al ’99 e Strehler morì nel ’97), è stato un maestro a cartina di tornasole, e anche quello era importante. Non posso negare che è stato un maestro di una grande intelligenza, ma semplicemente non mi ci riconoscevo, aveva un pubblico che a me non interessava avere. Sono stata a Napoli di recente, e sono stata sopraffatta dalla bellezza, dove la cultura è un fatto anche umano, sei sopraffatto dall’affetto. Ronconi, per dire, faceva a mio parere cose molto cerebrali. Un altro maestro per me è Jan Fabre, con cui ho fatto un laboratorio alla Biennale, e poi da quello ne ha fatto un piccolo allestimento che si chiamava The Holy Gangster. Ci sono due aspetti del suo lavoro che io trovo sacrosante e che applico tanto: la ripetizione e la ricerca del limite partendo dal corpo. La forma della ripetizione, come le prove in francese (répétition), ti fa capire meglio le cose, fa accadere dell’altro, le azioni si trasformano, ed è un lavoro che agisce anche sul corpo. Alcuni maestri diventano tali perché fanno un percorso che è personale, autoriale, autentico, ma umano prima di tutto.
Che cosa restituisce, aggiunge – oppure toglie – Elena Arvigo alla scrittura di Sarah Kane, sotto la lente della regista Valentina Calvani?
La tenerezza. Credo che questa sia una parola sottovalutata, la si pensa legata a un cucciolo, a qualcosa di infantile. Questo è un testo in versi straordinariamente bello per cui credo che si possa usare come raramente si può fare la parola “capolavoro”. Me ne rendo conto ogni volta che lo recito, e mi rendo conto del fatto che più divento precisa sul testo, più lo infrango, me lo cucio addosso, diventando nel contempo più attenta a quello che è all’interno del testo, non soltanto le parole, ma anche gli spazi bianchi, le pagine, i suoni. Credo che con Valentina siamo riusciti ad approcciare con grande rispetto il testo, anche riguardo il discorso sulla follia e la normalità. È stata una condivisione. La follia, come dice Alda Merini, è «la mancanza di qualcuno di importante». Alda Merini è stata un riferimento per me, mentre studiavo Sarah Kane, leggevo Alda Merini e la guardavo come una “sopravvissuta”, come se mi desse la forza per affrontare un tipo di percorso non così felice. Sarah Kane muore a 27 anni. Questa non è una cosa che può prescindere dalla sua opera. Un’altra influenza per questo spettacolo è stato il documentario di Alina Marazzi Un’ora sola ti vorrei: la madre di Alina Marazzi si è tolta la vita, e tutto il film parla della vitalità di questa donna, perché è importante non collegare il suicidio all’essere matto e al non amare la vita. Come dice anche Sarah Kane in una delle ultime battute: «Nessun suicida ha avuto voglia di morire», e che «si muore anche per eccesso di vitalità».
Se dovessi pensare a un tuo alter ego, tra i personaggi femminili interpretati, quale sceglieresti?
Eleonora Duse diceva che i personaggi che fai diventano un po’ delle “amiche”, ed è vero. Ci sono delle amiche più forti, Antigone, Anna Politkovskaya… ma quella che secondo me è stata un grande ventre che accoglie quasi tutti gli archetipi di donna, in cui c’è veramente tutto (la madre, l’amante…), è Giocasta. Soprattutto, il suo monologo che non conoscevo, “avere paura… non avere paura…”: praticamente è Amleto. “Non aver paura” ce l’ho tatuato sul braccio, ed è l’unico tatuaggio che ho.