In Focus. Il genio ne L’uomo che vide l’infinito
La vita e le scoperte di S. Ramanujan in un film che racconta il genio attraverso un’ottica differente dallo standard cinematografico.
Il genio lo hanno stretto gli artisti in ogni sua forma, mutato nella metafora della creatività si è tradotto sul grande schermo come ispirazione artistica e frutto di menti ferme da entrambi gli estremi di ciò che giudichiamo normale. A Beautiful Mind e Will Hunting – Genio ribelle raccontarono il genio scientifico, uno con la storia vera di John Nash, l’altro inventandone una di sana pianta con ben poca accuratezza nei confronti di ciò che regolarmente dovrebbe definirsi intelligenza. Furono però rappresentazioni estreme, uno affetto da gravi problemi psichiatrici e l’altro indisciplinato ragazzo per cui l’amore arriva al primo posto.
Solo negli ultimi anni, in particolare nel biennio 2014 – 2015 si è tornati a raccontare il genio scientifico, oggi che sguazziamo tra nozioni di fisica di altissimo livello e video di gatti ballerini in diretta live sui nostri profili Facebook. The Imitation Game e La teoria del tutto hanno raccontato le difficoltà enormi di due grandi scienziati del Novecento, Alan Turing, tra i padri dell’informatica, e Stephen Hawking, prominente astrofisico ancora oggi attivo e curioso di scoprire quanto più è possibile sulla fisica nascosta dietro le enormi singolarità vaganti nel vuoto cosmico, i tanto affascinanti e inquietanti buchi neri, visti da noi in Interstellar.
Turing e Hawking non si sono differenziati molto tra loro nella versione cinematografica, entrambi scelti per andare al cinema per l’ostacolo e il conflitto col mondo che li ha divisi dalla possibilità di una vita normale. Logico, la settima arte ha sempre preferito dar vita all’attrito, uno spunto dinamico per incarnare una storia, eppure tutto segue sempre lo stesso ragionamento logico: il genio ostacolato dal male, discriminazione o malattia da cui è impossibile sfuggire. In quest’ottica un film come l’appena distribuito L’uomo che vide l’infinito di Matthew Brown arriva come una ventata di aria fresca, portatrice di novità.
Stavolta il conflitto è solo co-protagonista. Srinivasa Ramanujan nacque nella città di Madras nel 1887, dove visse a lungo con la testa sui propri quaderni a scrive formule matematiche di incredibile complessità, finché una delle sue lettere non arriva al Professore del Trinity britannico, Godfrey “Hardy” Harold. L’inglese, sconvolto dalla bellezza delle formule di Ramanujan, decide di invitarlo al college dove promette di aiutarlo a pubblicare le sue scoperte, in particolare il suo avanzamento nel problema delle partizioni, ritenuto fino a quel momento un blocco semplicemente impossibile da superare. La storia ci dice che lo superò.
Ramanujan è una delle grandi menti matematiche della nostra storia e la sua identità non fu ben accolta nelle sale dell’università britannica, lui figlio di una città povera della colonia indiana, un “nero” su cui Hardy a detta di tutti i suoi colleghi, eccetto il filosofo Bertrand Russell e il matematico John Littlewood, pone fin troppa fiducia. È proprio qui la differenza tra The Imitation Game e La teoria del tutto e L’uomo che vide l’infinito: il film di Matthew Brown pone l’ostacolo in cima, ma ancor più in alto regala all’Hardy di Jeremy Irons un ruolo da protagonista, creando una storia che ha al centro sì il genio, ma soprattutto l’amicizia.
L’uomo che vide l’infinito ha Dev Patel nei panni del geniale Ramanujan, ma è attraverso il ricordo di Hardy che riesce a bucare lo schermo e a raggiungere lo spettatore. Sfortuna vuole manchi il guizzo registico di un James Marsh (La teoria del tutto) o la forza espressiva di Morten Tyldum (The Imitation Game) altrimenti Brown avrebbe senz’altro schiacciato entrambi. Eppure non si può dire non ci sia riuscito in qualche modo: la figura di Ramanujan esiste nel suo amore per la moglie, rimasta in India negli anni vissuti al college durante la Prima Guerra Mondiale, e più di ogni altra cosa nella sua divina fascinazione per la matematica.
Brown scrive un film in cui l’amore per la scienza non è tangenziale all’amore per una donna: Keira Knightley e Felicity Jones furono le donne dietro due grandi uomini, almeno nella versione filmica, Dev Patel ha invece la possibilità di esprimere i suoi sentimenti attraverso la propria passione. Lo stesso dicasi per Hardy, personaggio scritto fin nei minimi dettagli e portato sullo schermo con immensa raffinatezza dal gigantesco Jeremy Irons: a loro è finalmente concesso dar vita a un genio con incredibile semplicità e realismo. Sensazionalismi, forzature romantiche sono state scacciate con cura.
Scene classiche e fastidiosamente ricoperte di cliché non mancano ne L’uomo che vide l’infinito, però è possibile andare oltre e sopportarle, ringraziando autori e produttori di non aver voluto calcare la mano in territori fin troppo noti. Matthew Brown ha dei difetti forse difficili da superare o ignorare, ma ha ugualmente creato un film godibile, comprensibile – cosa che non si può dire di tanti altri su scienziati di questo tipo – e umano. Quest’ultima è la parola più adatta a descriverlo e se è così di certo è anche grazie all’enorme contributo di uno dei migliori attori britannici di sempre, Jeremy Irons.
Dettagli
- Titolo originale: The Man Who Knew Infinity
- Regia: Matt Brown
- Anno di Uscita: 2015
- Genere: Biografico
- Fotografia: Larry Smith
- Costumi: Ann Maskrey
- Produzione: UK, USA
- Cast: Dev Patel, Jeremy Irons, Malcolm Sinclair
- Sceneggiatura: Matt Brown, Robert Kanigel