Cinema

Il traditore // Focus

Franco Cappuccio

Altro film elegiaco di gangster di un regista settuagenario, la saga siciliana di Marco Bellocchio ferma il cronometro alle relativamente brevi due ore e mezza ma, come la sua controparte americana, The Irishman, si dipana per continenti e decenni mentre lancia un occhio retrospettivo sulle ingiustizie di Cosa Nostra durante una delle sue temporanee quanto spettacolari decimazioni. Denso e meditabondo ma, come il film di Scorsese, raccontato energicamente, Il traditore si dispiega sotto l’ombra minacciosa della mortalità, del tempo che sta per finire per anziani capofamiglia, e di debiti che vengono al pettine.

Al centro, un superbo Pierfrancesco Favino interpreta Tommaso Buscetta, l’informatore che ha fatto i nomi dei membri della famiglia Corleone rivale e diede alla nascita quello che fu per l’Italia il processo del secolo: durato dal 1986 al 1992, il Maxi Processo, tenne la nazione stregata in un melodramma pronto per i mezzi di comunicazione che nessun sceneggiatore avrebbe potuto inventare. Le scene ritratte sono sbalorditive. In un’aula di tribunale costruita per l’occasione all’interno di una prigione siciliana, i detenuti gridano da dietro i vetri di una finestra. Uno chiede di essere ascoltato come interrogato – il giudice accetta. Un altro mostra la una bocca insaguinata: si è cucito le labbra chiuse. Le mogli si uniscono al coro, la bolgia sussegue.

Prima di ciò, il film si apre con una lungo e rumoroso squarcio di una festa, un tentativo disperato di riunire le due fazioni in guerra che rivela soltanto le cuciture rattoppate sia nelle famiglie mafiose che in quelle coniugali. La musica suona, le coppie ballano; questo spettacolo di una cultura tribale sull’orlo del collasso potrebbe essere la versione da opera buffa della grande scena del ballo in Il Gattopardo di Luchino Visconti, quel momento di commiato in cui l’aristocrazia anticipa la sua scomparsa. Buscetta lascia momentaneamente la festa, scrutando all’orizzonte per cercare suo figlio. Quando trova il tossicodipendente Benedetto che viene barcollando dal mare, il padre lo trascina dentro la villa, picchiando il figlio mentre lo fa – il primo segno della devastazione dell’eroina e un’anticipazione delle calamità che verranno.

Per fuggire alle minacce alla propria vita, Buscetta vola a Rio, sistemandosi alla grande in un’altra splendida villa a picco sul mare. Nel far ciò, abbandona i proprio figli al loro destino – un gesto che lo tormenterà più di ogni omicidio che possa aver mai commesso direttamente. Arrestato dalla polizia brasiliana, è soggetto a delle tattiche di estrazione delle informazioni che la mafia può solo ammirare. Ad un certo punto sta volando in elicottero sul mare e viene costretto a guardare sua moglie penzolare da un elicottero vicino. La signora Buscetta viene poi trasferita negli Stati Uniti e, se lui volesse mai rivederla, deve raccontare nomi e fatti – il suo motivo apparente per diventare un pentito.

A causa della complessità della storia del film, le sue differenti cornici temporali, e un cast degno per grandezza di un film di DeMille, Bellocchio fornisce titoli esplicativi e notiziari per i fruitori non italiani del film. Nel ritmo contrappuntistico utilizzato oggi dai film di gangster, andiamo avanti e indietro tra movimento e stasi, da colpi violenti – auto che esplodono, un capannone riverbera di colpi di proiettile – a scene di calma sinistra. Riportato di nuovo a Palermo, Buscetta si ritrova ad affrontare una serie di confronti con Giovanni Falcone (Fausto Russo Alesi), l’eroico magistrato che avrebbe assicurato alla giustizia numerosi criminali e avrebbe pagato con la sua vita in una esplosione d’auto.

Il loro duetto inizia con un sospettoso antagonismo: Buscetta sostiene che la nuova mafia non è come la vecchia nel raffigurarsi come un uomo d’onore con palesi e risapute dichiarazioni false (mai ucciso bambino; aiutato i poveri; nessun traffico di eroina), mentre Falcone replica “La vecchia nobile mafia è un mito”. L’affascinante offensiva di Buscetta si appassisce davanti alla calma integrità del suo interrogatore. Il reietto e il pubblico ministero, una volta schierati in fazioni differenti, sono diventati entrambi bersagli della mafia, e mentre mestamente discutono le loro morti sospese, non il se ma il quando e il come, sviluppano uno spirito cameratesco che sfocia nell’affetto, persino l’amicizia.

Aspirando alla virtù secondo la definizione originale latina vir (virilità), sono come due soldati romani sul campo di battaglia: “Noi che stiamo per morire ti salutiamo”. Se questo è in un qualche un ritratto più eroico di quello che la carriera arrivista e lo stile di vita edonistico (tre mogli in tre continenti) di Buscetta potrebbero giustificare, sia messo agli atti che ha continuato a fornire informazioni sia al governo italiano che a quello statunitense. Grazie al suo aiuto nel famoso caso “Pizza Connection” del 1985, gli fu data la cittadinanza americana e un posto nel programma di protezione testimoni. A differenza di Falcone, sarebbe vissuto fino alla scadenza naturale della sua vita, morendo di cancro nel 2000 all’età di 71 anni in una “località non identificata”.

Bellocchio, un maestro della famiglia – qui sia con la maiuscola che con la minuscola – ritrae questa improbabile fratellanza come il legame centrale de Il traditore. In quanto direttore dello straziantemente bello e forse insuperato I pugni in tasca (1965), il suo film di debutto, ha un forte interesse per il tema psicologico all’interno della famiglia, sia nella severità che nella dolcezza, dei legami che la tengono insieme, e persino le sue drammatizzazioni di figure politiche e temi sociali sono ancorati nella micro famiglia o nelle relazioni familiari. Buongiorno, notte (2003), sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro dalle Brigate Rosse, trova il suo centro nella relazione fortemente ambivalente tra Moro e la bella figura quasi filiale della sua carceriera, anche se i due non si incontreranno mai faccia a faccia. Vincere (2009) racconta la storia di Mussolini attraverso gli occhi dell’amante un tempo amata e poi denigrata.

I pugni in tasca, la storia di una famiglia borghese di provincia che si disgrega delittuosamente, e fatto quando aveva solo 25 anni, fu preso come un presagio della ribellione degli anni ’60, ma nel tempo è emerso come qualcosa di più grande e più idiosincratico: un ritratto ravvicinato della perversione sessuale e della mania omicida reso più disturbante dallo spaventoso carisma dei suoi attori – un eco forse trovata nella performance di Favino ne Il traditore. Come molti un debutto spettacolare, I pugni in tasca ha messo uno standard di aspettativa che era difficile da incontrare, e a differenza del suo contemporaneo Bertolucci, Bellocchio è rimasto in Italia. Ma se siamo stati esposti a meno lavoro del regista di quel che vale, è colpa del nostro provincialismo piuttosto che di lui che porta la colpa.


  • Diretto da: Marco Bellocchio
  • Prodotto da: Beppe Caschetto
  • Scritto da: Marco Bellocchio, Valia Santella, Ludovica Rampoldi, Francesco Piccolo, Francesco La Licata
  • Protagonisti: Pierfrancesco Favino, Maria Fernanda Cândido, Fabrizio Ferracane, Fausto Russo Alesi, Luigi Lo Cascio
  • Musiche di: Nicola Piovani
  • Fotografia di: Vladan Radovic
  • Montato da: Francesca Calvelli
  • Distribuito da: 01 Distribution (Italia)
  • Casa di Produzione: IBC Movie, Kavac Film, Rai Cinema, Gullame, Ad Vitam Production, Match Factory Productions
  • Data di uscita: 23/05/2019 (Cannes e Italia), 06/11/2019 (Francia)
  • Durata: 135 minuti
  • Paese: Italia, Francia, Brasile, Germania
  • Lingua: Italiano

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