Vetrina. “Il senso di una fine”
Una sottile meditazione sul senso delle parole e del passato, della relatività delle prospettive individuali, sulla fluidità e inafferrabilità della memoria
How often do we tell our own life story? How often do we adjust, embellish, make sly cuts? And the longer life goes on, the fewer are those around to challenge our account, to remind us that our life is not our life, merely the story we have told about our life. Told to others, but – mainly – to ourselves.
Il passato è, tutto sommato, un’invenzione, ovvero è una narrazione che si nutre di eventi realmente accaduti, filtrati attraverso le strette maglie delle proprie emozioni. Il ricordo di un evento sarà sempre unico e differente da quello delle persone che l’hanno condiviso con noi. Molte volte, accade addirittura, che nel confronto con gli altri si scopra persino di aver vissuto o detto cose di cui non si ha memoria, o viceversa di ricordare loro eventi o situazioni a cui non rammentano di aver preso parte. La narrazione della Storia stessa, dice Hayden White d’altra parte, è metastorica e dunque finzionale. Tutto è relativo e il sassolino nella scarpa che si vede retrospettivamente, può essere il masso che è caduto addosso ad un’altra persona.
Tony Webster, protagonista e narratore del più recente romanzo dello scrittore inglese Julian Barnes, scoprirà questa tremenda verità sulla propria pelle. Uomo sereno, appena entrato in pensione, con alle spalle un tranquillo divorzio e una splendente carriera lavorativa, scopre suo malgrado che la versione del passato che ha sempre raccontato, o “si” è sempre raccontato, non è proprio sincera. O meglio, sincera lo sarebbe anche, ma per chi? E qual è il limite tra sincerità e menzogna, quando non si conoscono tutti gli eventi del passato?
Sottile meditazione sul senso delle parole e del passato, della relatività delle prospettive individuali, sulla fluidità e inafferrabilità della memoria, il breve romanzo di Julian Barnes, vincitore del Man Booker Prize 2011, gioca con la sensibilità del lettore, portandolo ad interrogarsi sul limite entro cui la percezione del passato forgia l’identità. Basta infatti un leggero slittamento di vedute per mettere in discussione la memoria e, in fondo, anche se stessi.
Il senso di una fine è una lettura appassionante, dove si incrociano suspance e mistero, profondità e meditazione. Semplice, eppure mai banale, è un testo folgorante, una piccola epifania del quotidiano che da un lato strizza l’occhio a quei testi scritti da narratori inattendibili (Espiazione di Ian McEwan o La versione di Barney di Mordecai Richler), ma che dall’altro mostra come, forse, l’inattendibilità sia connaturata a noi stessi e alla relatività della nostra visione sul mondo e, soprattutto, sul passato.
- Genere: Narrativa straniera