Il Maggio dei Libri
“Books are the only thing you buy that makes you richer”
In un saggio del 1946 [Books vs. Cigarettes], lo scrittore inglese George Orwell ebbe l’ardire di mettere a confronto i libri con le sigarette. Ciò onde dimostrare che, all’epoca e nel suo Paese, le persone tendevano a risparmiare molto di più sull’acquisto dei primi che delle seconde, per giunta attuando qualsiasi tipo di escamotage, dal baratto con l’usato al falso prestito, passando per il furto vero e proprio, occasionale o reiterato.
A più di un secolo di distanza forse i libri si rubano di meno – fatta eccezione per la Biblioteca dei Girolamini – ma ci si scandalizza ancora e non poco all’aumentare del loro costo, se non addirittura per il fatto stesso che ne abbiano uno. Il disastro è tutto attuale e soprattutto italiano, e se gli editori ne sono protagonisti e insieme complici, oggetto di critiche accese e severe, più raramente viene puntato il dito contro i facenti parte della “categoria” dei lettori. Senza i quali, in sostanza, la figura dell’editore non avrebbe senso d’esistere.
In questo “Maggio del Libro” – e non solo – è necessario un esame di coscienza. E’ necessaria un’ auto-inclusione da parte di noi lettori. Basterebbe saper rispondere a un paio di domande, come per esempio: il mio amore per la lettura è direttamente proporzionale alla quantità di libri che acquisto? Sono disposto a sacrificare un paio di aperitivi per mettere da parte un gruzzolo da esaurire in libreria? Se un amico pubblica un suo scritto, sono contento di comprarlo oppure premo per la copia omaggio? È ovvio che, pur dando una risposta positiva a ciascuno di questi interrogativi, il problema rimane. Perché è a monte, e di conseguenza pure a valle. Non inganniamoci: a dispetto di sporadici o apparenti slanci forieri di speranza, nella classifica italiana dell’ “intrattenimento culturale” il libro occupa ancora una posizione molto bassa. E il problema va osservato su due fronti: da un lato, è assodato che vi sia una generale mancanza di lettori, come si è più volte detto – e come è stato ulteriormente ricordato di recente da illustri conoscitori del panorama socio-culturale italiano quali Umberto Eco e Gustavo Zagrebelsky; dall’altro, però, è anche vero che chi si professa appassionato sostenitore dell’industria culturale non sempre è disposto a dimostrare tale sostegno in termini concreti. D’altronde, “industria culturale” è comunemente intesa come un concetto errato, una sorta di parolaccia che, di fatto, resta una realtà. Pura, semplice e positiva. Un meccanismo i cui ingranaggi necessitano di una lubrificazione costante. E quest’ultima non è appannaggio esclusivo di terzi. Non va delegata. Con la crisi o senza, siamo sempre e comunque tutti coinvolti; almeno, potremmo e dovremmo esserlo. E, per cominciare a farlo, sarebbe sufficiente ridisegnare il sistema delle nostre priorità: restituire alla cultura il suo primato, senza aspettare che lo facciano altri al posto nostro, considerandola come unico investimento sicuro, unica “perdita” capace di generare ricchezza in partenza. Unico vizio legittimo.
[l’immagine dell’articolo appartiene alla campagna di sensibilizzazione della Literacy Foundation]