Il lavoro dell’attore, lo studio e la disciplina: la via possibile raccontata da Giusy Emanuela Iannone, finalista Premio Hystrio 2015
Giovane attrice del salernitano, Giusy Emanuela Iannone condivide con “Scene Contemporanee” il suo percorso, costruito grazie a studio e disciplina. È finalista al Premio Hystrio alla Vocazione 2015 ed è stata di recente in scena in La morte di Danton per la regia di Mario Martone.
Giusy Emanuela Iannone è una giovane attrice di talento. Giovane e quindi dall’esperienza non vastissima (seppure notevole) del mondo del lavoro, come è naturale che sia. Fa parte di quella schiera di giovani attori italiani che ha deciso di iniziare questo mestiere alla “vecchia maniera”: studiando. Sembra una cosa ovvia, ma non lo è. Non soltanto per una questione di scelta personale, o morale, se vogliamo, ma per l’attuale stato di frammentazione e caotica iper-pubblicizzazione delle scuole di recitazione in Italia. Per fare il medico, l’ingegnere, l’architetto, l’insegnante, il biologo, di strade ce ne sono ben poche: bisogna studiare, laurearsi, fare un esame statale a volte, ore di tirocinio e stage, per poi, finalmente, cominciare ad “esercitare”.
Per fare l’attore no. Di vie da prendere ce ne sono mille. Ogni attore ha la sua strada, il suo particolare percorso. Un percorso affascinante, ricco di scoperte e sfide e passi falsi e di adorabili cialtroni.
Questa intervista vuole essere l’esempio di una via possibile. E chissà che chi non legga non si renda conto che qualcosa nelle esperienze di questa giovane attrice manchi nel proprio bagaglio, quel qualcosa a cui si deve ancora lavorare.
Ma vi lascio alle parole di Giusy che subito ci tiene a precisare:
Quando mi è stata proposta questa intervista ho pensato: “Ma cosa posso mai dire io dal basso della mia esperienza?”. Pensavo che forse era giusto non farla, poi però ho riflettuto sul fatto che il racconto del mio percorso, ancora in divenire, potrebbe essere a suo modo utile a chi ha voglia di cominciare questo mestiere o a chi lo sta già facendo. Insomma, questa vuole essere una condivisione, vorrei che fosse un dialogo aperto con chiunque legga, vorrei poter attingere anche io dal vissuto di chi dedicherà cinque minuti del suo tempo a leggere le mie risposte.
E allora cominciamo questo viaggio di condivisione, dal principio. Come è iniziata la tua formazione? È stata una sorta di vocazione o hai scoperto questo mondo gradualmente?
Fin da piccola ero attratta dal mondo dello spettacolo, mi piacevano molto il cinema e il circo dove andavo sempre con mia madre. A tredici anni ho capito di voler fare l’attrice grazie a una mia insegnante di educazione musicale delle scuole medie che decise di mettere in scena uno spettacolo di Eduardo De Filippo. Mi ritengo molto fortunata ad aver capito cosa volevo fare “da grande” così presto e ad aver deciso di inseguire il mio sogno con determinazione. Non credo di avere una vocazione perché non credo nella “vocazione”. Ho scoperto gradualmente questo mestiere e sono stata fortunata ad avere trovato durante il mio percorso degli ottimi insegnanti. Personalmente penso che la cosiddetta vocazione sia un’illusione, il mestiere si costruisce con la fatica e con l’umiltà.
A proposito di scuola media, pensi che l’educazione teatrale sia abbastanza presente nelle scuole italiane?
Non credo sia adeguatamente presente nelle scuole italiane, anzi, credo che debba essere potenziata non solo dal punto di vista pratico, magari affidando i corsi di teatro ad attori o registi professionisti e non esclusivamente ai docenti, ma anche da quello teorico. Bisognerebbe studiare l’evoluzione dello spazio scenico e della drammaturgia attraverso i secoli. Per me la scuola è stata molto importante, anche se non ero una secchiona! Mi piacevano molto le materie umanistiche, soprattutto la letteratura italiana. Credo che se non avessi intrapreso questo mestiere mi sarei dedicata all’insegnamento e in futuro spero di poter unire le due cose. Insegnare è uno dei mestieri più difficili e nobili, tra insegnante e allievo dovrebbe crearsi un’osmosi. La scuola mi ha insegnato a sviluppare un pensiero critico e soprattutto un punto di vista sulla vita.
Ti sei laureata in Discipline delle arti visive, della musica e dello spettacolo, quali strumenti pensi possa fornire uno studio universitario a un “mestiere” come il tuo?
Non è indispensabile frequentare l’Università se si vuole intraprendere una carriera attoriale. Tuttavia lo studio teorico affiancato alla pratica sul palco è fondamentale. Io avevo la necessità di approfondire la mia conoscenza e ho deciso di ampliare la mia ricerca anche sul versante teorico. Non ho mai pensato di saperne di più, né ho creduto che frequentare l’Università potesse rappresentare un merito o un vantaggio, vedo la mia esperienza universitaria come una freccia in più al mio arco da utilizzare nel processo creativo. A volte ho anche pensato che forse sarebbe stato meglio non sapere. Oggi penso con serenità che mi sbagliavo e in me si è rafforzata sempre di più l’idea che non si fa teatro se non si ha voglia di conoscere. Lo studio va coltivato giorno dopo giorno e non è legato solo ad argomenti che riguardano il teatro. I libri che leggi, i film che vedi, le mostre che scegli di andare a vedere, le poesie che leggi determinano l’attore che sei. Taluni hanno un’idea romantica dell’artista, come un essere geniale che sviluppa le proprie creazioni in balia di un estro creatore quasi soprannaturale. Per me un artista è un artigiano che crea con pazienza e minuzia le sue opere giorno dopo giorno. Il risultato finale è dato dalla somma dei giorni in cui ha sudato, letto, provato, sbagliato e riprovato. Insomma credo che sia la ricerca a fare l’arte. Lo studio teorico è importante e ti fornisce gli strumenti indispensabili per lavorare e proporre una visione del personaggio sensata e in linea con il testo e l’autore.
Il tuo percorso di formazione è continuato al Piccolo di Milano. Quali sono i pro e i contra di una scuola così importante? Cosa fornisce di fondamentale ai suoi allievi e cosa invece occorre andare a cercare altrove?
Ho scelto di frequentare una scuola di teatro perché volevo apprendere le regole di questo mestiere. Non è stato un percorso facile ma ricordo con amore proprio gli insegnanti che mi hanno fatto mettere in discussione. Siamo la generazione del facile e non accettiamo l’idea che per avere risultati duraturi bisogna investire tempo, impegno e pazienza. Questo devo ricordarmelo anche io ogni giorno. La scuola mi ha insegnato questo: che la scuola non finisce mai e che è importante conoscersi per darsi delle regole. Mi ha fornito gli strumenti per affrontare questo lavoro con consapevolezza. Recitare è difficile, è come provare a spostare una colonna, devi metterci ogni volta la stessa intensità ma essere leggera come una farfalla. Da quando ho finito la scuola ho cominciato a cercare un mio modo di creare i personaggi, di non rendere sterile la tecnica, ma di affinarla e asservirla a una mia idea creativa. Sono ancora alla ricerca, ho capito che questa non finirà mai, anzi, lo spero, perché il percorso può essere molto divertente, oltre che faticoso; e il bello di questo mestiere è proprio questo!
Hai avuto l’onore di studiare con Luca Ronconi. Sappiamo quanto sia stata importante e presente nella sua lunga carriera la vocazione pedagogica.
Si, ho avuto l’onore di averlo come maestro. Quando seppi che ci aveva lasciati provai un’immensa tristezza sia perché non ero riuscita a salutarlo ma anche perché capii che avevamo perso un genio unico e irripetibile. Ricordo le sue lezioni e mi ritengo fortunata per essere stata una testimone oculare di quello che avveniva in aula. Ronconi arrivava sempre puntuale, infaticabile e pronto a vedere le nostre proposte. Noi allievi a turno gli sottoponevamo scene o monologhi tratti da testi che ci avevano dato a scuola durante il primo anno. Si trattava di testi difficili dalla trilogia dell’Orestea di Eschilo, a Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill, passando per Le Mosche di Sartre e per il Pilade di Pasolini ed altri ancora. La cosa che ricordo maggiormente è la sua capacità di aprire ai suoi alunni un punto di vista nuovo su un testo. Lui leggeva una scena e improvvisamente questa appariva nella nostra mente, oppure si soffermava su dettagli ai quali non avevamo fatto caso. Una frase ricorrente in aula durante le sue lezioni era: “E’ vero! Perché non ci avevo pensato prima?!”. La sua genialità era questa, vedeva oltre il testo, scovava gli impulsi che si nascondono dietro le parole. Non si riteneva un maestro anzi scherzava a tal proposito, perché non aveva un “metodo”. Il suo approccio variava a seconda del testo, dell’attore che aveva davanti, ma era sempre coerente perché alla base di tutto c’era la voglia di trasmettere l’idea del teatro come forma di conoscenza della realtà, di se stessi.
Al di là delle tecniche utilizzate durante le lezioni, quale pensi sia stato il suo messaggio per gli attori di domani?
Ci ha insegnato molte cose ma le racchiuderei in una sola parola: consapevolezza. Ci chiedeva spesso che tipi di attori volessimo diventare e ci invitava a fare chiarezza dentro di noi. Ci invitava a non essere usati da un sistema solo per un bel visino o perché si è giovani e simpatici.
Parlando di consapevolezza, una caratteristica indispensabile per l’artista, di cosa pensi debbano essere assolutamente consapevoli gli attori della tua generazione?
Non abbiamo scelto certamente un mestiere facile e quindi la voglia di fare o talvolta di apparire può essere indomabile. Io penso che gli attori e le attrici debbano considerare fondamentale l’idea che il mondo abbia bisogno della cultura e dell’arte per migliorare. Vorrei che fossimo consapevoli che cedere a delle proposte artistiche di scarso valore solo per affermare l’ego alla lunga non paga. Vorrei che fossimo consapevoli dei nostri diritti e dei nostri doveri verso il pubblico. Vorrei che fossimo consapevoli che il lavoro gratuito non è lavoro.
E di cosa, in particolare, pensi debbano essere consce le attrici?
Credo che noi attrici dovremmo essere più consce dell’enorme potenziale femminile. Noi donne siamo degli universi infiniti, in verità ogni singolo essere umano a prescindere dal sesso lo è, ma la donna ha la capacità di poter contenere dentro di sé un altro corpo, che scelga di farlo o meno. Questo implica un mistero che dura dall’inizio della vita su questo pianeta. Per me un’attrice è bella quando si concede con onestà e offre il suo mondo e di conseguenza crea una sorta di magia che fa intravedere quel mistero. Non è solo una questione di estetica. Ho amiche attrici stupende e uniche nel loro offrire con libertà e passione la loro visione del mondo. Da queste donne prendo molto e mi ritengo fortunata di poter offrire nel mio piccolo anche io qualcosa a loro. Ci sono donne fortissime che hanno creato compagnie, che dirigono spettacoli, che hanno dato vita a realtà teatrali importanti, che montano e smontano scene. Tuttavia, secondo me, c’è ancora discriminazione anche se è comodo pensare che non sia più così. Il mondo femminile è un argomento che mi sta molto a cuore e spero di poter creare anche io qualcosa di mio.
Parlaci dell’esperienza fatta recentemente con Mario Martone.
La morte di Danton è stata la mia prima esperienza lavorativa importante. Siamo trenta attori e Mario è stato molto bravo a gestire un gruppo così ampio, non ha mai trasmesso ansia ma grande serenità. Questa esperienza mi ha insegnato molto anche a livello umano oltre che lavorativo. Inoltre ho potuto vedere da vicino il lavoro di attori eccezionali e poter apprendere da loro.
Oltre ad essere sul palcoscenico, hai avuto esperienze come aiuto regia. Come questo punto di vista, inedito per un attore, ti è stato utile?
Moltissimo. Mi aiuta a sviluppare un punto di vista esterno alle cose. Mi sento un po’ sgravata di alcune responsabilità anche se ne ho delle altre. Inoltre è sempre bello stabilire un rapporto di fiducia con il/la regista e con gli attori per i quali diventi una figura di riferimento.
Qual è il consiglio che ti senti di dare a chi ha appena intrapreso questa strada? E cosa invece vorresti suggerire ai tuoi colleghi? Qual è, se c’è stata, l’esperienza che ha cambiato la tua attrice, che l’ha fatta crescere in un modo particolare, e che vorresti condividere e raccomandare?
Non mi sento in grado di dare consigli né di suggerire niente, ma mi piacerebbe condividere un’esperienza che mi ha fatto riflettere sul senso di questo mestiere e che mi ritorna in mente nei momenti di difficoltà. Dopo il diploma alla Scuola del Piccolo, io e la mia classe, il nono corso per attori Jean Louis Barrault, andammo in Ungheria per uno scambio culturale con gli allievi delle scuole di teatro di Budapest e di Mosca.
Prendemmo parte alle varie lezioni che si svolgevano a scuola e tra queste c’erano quelle di Contact Improvisation. E’ una materia che richiede grande sforzo e consapevolezza fisica e in Ungheria sono tosti! L’insegnante ci faceva lavorare in coppia con un allievo ungherese, anche perché avremmo dovuto lavorare sulle prese. Il mio compagno di lavoro era un ragazzotto simpatico, grassottello e gioviale che si presentò a lezione con una camicia e un pantalone della tuta. Insomma sebbene mi fosse molto simpatico non credevo che quel ragazzo fosse un esempio di umiltà e di disciplina.
Durante i vari esercizi il ragazzo si rivelò uno degli allievi più bravi e precisi. Non si fermava mai. Ripeteva un esercizio fin quando l’insegnante non diceva che era finito. Quel ragazzo grondava sudore e mi sosteneva con grande precisione e soprattutto trasudava e mi trasmetteva amore per quello che faceva. In lui non vinceva la stanchezza ma la voglia di fare e di aiutare me ad apprendere delle cose che lui già sapeva. Nella campagna ungherese con più di trenta gradi vissi uno di quei momenti in cui ti senti immensamente grata di fare questo mestiere, perché secondo me il senso di questo mestiere sta in una vera condivisione umana. Ogni volta che mi sento stanca penso a quell’episodio che mi commosse. Penso che quel ragazzo sintetizzi concretamente con i suoi gesti quello che dovremmo fare ogni volta tutti noi attori: dare con generosità.
Grazie per avercelo raccontato, Giusy. Un’ultima domanda: se potessi fare un augurio speciale al teatro italiano, quale sarebbe?
Una rinascita. L’unica nota positiva di questo momento di crisi è che dalle ceneri si può ricostruire e forse si cominciano a intravedere i primi barlumi di speranza. Auguro meno chiacchiere e più fatti, più meritocrazia, un vero sviluppo dei diritti dei lavoratori dello spettacolo e del teatro, non solo attori ma anche personale tecnico. Sono pienamente consapevole che questo è un mestiere difficile ma sono anche convinta che per espandere la qualità si debba attuare un cambiamento individuale, non accettando compromessi di qualsiasi tipo ma mantenendo coerenza e rispetto prima verso se stessi e poi verso quello che abbiamo scelto di fare. Lo so che può sembrare impossibile ma si può fare e soprattutto noi giovani abbiamo il diritto di credere che possiamo cambiare le cose, non possono toglierci anche questo!