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Henri Cartier-Bresson alla Villa Reale di Monza

Carmen Navarra

Lo scorso 26 febbraio si è conclusa a Monza, nella suggestiva cornice di Villa Reale, una retrospettiva di Henri Cartier-Bresson, padre della fotografia. 140 scatti (decisamente insufficienti per omaggiare l’operato dell’artista) con cui il fotografo ha immortalato il Novecento (da qui l’appellativo di ‘occhio del secolo’), gli stravolgimenti sociali (da qui la definizione di ‘inventore del foto-giornalismo’), ma anche i ritratti di personaggi noti nonché suoi amici (Sartre, Faulkner, Mauriac, Matisse, Camus, Capote) e infine momenti (e movimenti, data la loro estemporaneità) di vita strappati all’anonimato. Tutto viene fatto con l’utilizzo di macchine fotografiche Leica definite da Bresson “estensione del mio stesso occhio”. La prima – sua compagna fidata per molti anni – sarà una 35 mm, la Leica Rangefinder, con una lente di 50 mm.

Arrivo in Villa Reale un pomeriggio uggiosissimo di febbraio, intorno a me i colori prevalenti sono il bianco e nero, gli stessi a cui le foto di Bresson mi abitueranno di qui a poco. La mostra, curata in modo molto sommario, ha diverse falle: le fotografie non seguono né un criterio cronologico, né un criterio logico, per quanto, fiduciosa, abbia aspettato, sala dopo sala e fino alla fine, di ritrovare un filo che è rimasto intricato tutto il tempo del ‘viaggio’. Alla mancanza di ‘coerenza’ si è aggiunta la discutibile scelta di inserire le foto non sempre in serie, bensì una sopra l’altra, sì da penalizzarne una visione accurata e completa. Sebbene le contingenze non fossero delle migliori, ognuno degli scatti del talentuoso fotografo ha avuto la capacità di farmi penetrare nell’anima dei luoghi e dei ritratti da lui realizzati.

Henri Cartier-Bresson nasce a Chanteloup (Francia) nel 1908. Di famiglia borghese, si dedica, fin dai primi anni della giovinezza, alle sue passioni: la pittura (soprattutto surrealista), la fotografia e il cinema. Nel 1936, infatti, lavora come assistente alla regia di Jean Renoir, figlio del celebre pittore e caposaldo del cinema francese e mondiale, per poi decidere di dedicarsi preminentemente alla fotografia. Gli anni ’30 e ’40 risultano già prolifici poiché matura dei principi che nel tempo diverranno ‘capisaldi’ di quest’arte. Secondo Bresson, la fotografia deve cogliere il cosiddetto ‘momento decisivo’, ovvero l’attimo che precede il ‘click’, durante il quale cuore-testa-occhio si allineano, funzionando all’unisono; inoltre deve dare risposte alle domande ‘cosa-dove-come-quando’, ma senza esprimere, in modo didascalico e verboso, gli obiettivi che si pone. Infatti l’artista sceglie titoli essenziali per le sue opere, contenenti esclusivamente il luogo e la data. A questo periodo risale un viaggio in Europa, nonché diverse foto scattate in Italia; tra queste si ricordano Salerno, 1933, che ritrae un bambino che riposa per strada vicino a un carretto (non si conosce con esattezza il posto: potrebbe trattarsi della zona del vecchio carcere o del Duomo, cuore del centro storico della città campana). Per descrivere questo memorabile scatto lo storico Jean Leymarie dirà: ‘Ha la perfezione di disegno tridimensionale costruito sui rapporti delle linee, delle superfici e dei valori tra i due muri diversamente illuminati e il sole tangente’; Livorno, 1933, in cui emerge tutto lo spirito surrealista di Bresson (al surrealismo della quotidianità approderà in modo più netto grazie alla conoscenza del fotografo messicano Àlvarez Bravo): la fotografia immortala il corpo di un soggetto (in procinto di leggere il giornale), la cui testa è sostituita da un enorme nodo: l’idea che suggerisce la foto è che le notizie dei giornali siano talmente riprovevoli da indurre chi le legge a preferire la decapitazione. Nel celebre quadro Il figlio dell’uomo (1964), Renè Magritte dipingerà un uomo il cui volto è oscurato da una mela; verosimilmente il punto di riferimento è Bresson. Alla serie di foto realizzate in Toscana appartengono anche Firenze, 1933 e Piazza del mercato, 1933, l’ultima delle quali particolarmente suggestiva per la veduta dall’alto della soleggiata piazza senese. Bisognerà attendere un ventennio prima che il fotografo francese torni nel belpaese, scegliendo, stavolta, di immortalare i paesaggi rocciosi e aspri dell’Italia centrale. Una serie fortunata sarà quella dedicata al borgo medievale di Scanno (Abruzzo) che avrebbe visitato tra il 1951 e il 1953 e che negli anni a seguire sarà immortalato anche dall’occhio di Maurits Cornelis Escher (PER LA MOSTRA DI PALAZZO REALE CLICCARE QUI) e Gianni Berengo Gardin. Di poco posteriore è Roma, 1939, immagine quasi pasoliniana della periferia cittadina. Il capolavoro dei primi anni di attività bressoniana sarà tuttavia realizzato in terra francese: Derriere la Gare Saint-Lazare, Parigi 1932 diventa l’espressione massima di come Cartier-Bresson rifuggirà per tutta la sua vita artistica qualsiasi tecnicismo, perseguendo, di contro, il principio secondo il quale ‘le fotografie possono raggiungere l’eternità attraverso il momento’. Questo concetto, che sarà teorizzato negli anni a seguire, trova qui in modo anacronistico uno degli esempi più cristallini. Bresson, in una giornata piovosa dietro la stazione di Saint-Lazare, coglie l’istante in cui un uomo buffo con una tuba sulla testa, à la Magritte ma anche à la Jacques Tati, salta una pozzanghera, sfiorando l’acqua con il tacco. Alle sue spalle un poster con una scritta a lettere cubitali ‘Railowsky’ conferisce un tocco di decadenza all’immagine. Un altro simbolo del ‘momento decisivo’ è dato da Hyères, 1932, conosciuto anche come Ragazzo in bicicletta, 1932, in cui, come si può intuire dal titolo, un ragazzo, in sella alla sua bici, fotografato dall’alto e di spalle, fugge verso un indefinito altrove dietro la curva. Ancora una volta è il momento del movimento a conquistare il fotografo e, di rimando, lo spettatore. Nel 1934 si reca in Messico (vi ritornerà anche negli anni ’60) per compiere degli studi etnografici. A questo periodo risalgono fotografie che hanno come tema portante l’erotismo. In Messico, 1934, i protagonisti sono due soggetti avvinghiati l’uno all’altra, di cui l’osservatore non riesce a distinguere le singole parti del corpo: seni, braccia, gambe, labbra sono sapientemente sfuocate da Bresson. Alla stessa serie appartiene Calle Cuauhtemocztin, Città del Messico, 1935, in cui due donne, pesantemente truccate, si affacciano ad una finestra lignea, sorridendo maliziosamente all’obiettivo.

L’altro grande tema trattato da Bresson è la guerra: nel 1938, infatti, si reca in Spagna per dare testimonianza fotografica della guerra civile spagnola. Darà vita al documentario L’Espagne vivra. Poco prima, aveva realizzato un altro celebre scatto nel medesimo luogo: Seville, 1933, in cui coglie, con una prospettiva inedita, gli effetti della guerra: tra le rovine di un edificio alcuni bambini giocano, appunto, alla guerra sorridenti e baldanzosi; l’immagine più ‘divertente’ è quella di un bambino che cammina con le stampelle sotto le braccia. Con questa foto, Bresson potenzia la sua capacità di sensibilizzare lo spettatore attraverso la scelta di soggetti che rappresentino una speranzosa rinascita nella (quasi) totale devastazione. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, si arruola nell’esercito francese, ma nel 1940 viene catturato dai tedeschi. Dopo diversi tentativi, riesce a fuggire nel 1943 e due anni dopo realizza il documentario Le Retour che ha come tema la liberazione parigina. A questo periodo appartiene Dessau, 1945: la foto, scattata in un campo profughi, ritrae un’informatrice della Gestapo, riconosciuta da una donna che l’aveva denunciata; questa immagine comunica sensazioni contrastanti, dall’odio alla speranza (di cui emblema si fa la donna che, presumibilmente, aveva scoperto l’accaduto). Il suo fotogiornalismo tocca l’apice negli anni compresi tra il 1948 e il 1950, quando, in Estremo Oriente, segue tre eventi epocali: in India la morte di Gandhi; in Cina gli ultimi sei mesi del Kuomintag; in Indonesia la guerra d’indipendenza. Foto cardine del primo evento è la rappresentazione di milioni di indiani che rendono omaggio al Mahatma sulle rive del Gange; icona del Kuomintag è una foto che ritrae un uomo disfatto, appollaiato su una panca nell’atto di mangiare: benché trasversale, la guerra è un’ombra vivida. Pochi anni prima, nel 1947, aveva fondato insieme a Robert Capa, David Seymour, George Rodger e William Vandivert quella che diverrà la più grande agenzia fotografica al mondo, la Magnum Photos. Tra gli anni ’50 e ’60 ritorna nuovamente in Europa; il suo occhio pone l’attenzione sui Paesi del Mediterraneo. In Grecia, per esempio, realizza Atene, 1953 che ritrae due anziane donne a passeggio, sopra le cui teste campeggia una balaustra dove sono scolpite due cariatidi. Anzianità alternative, potrebbe essere il beffardo sottotitolo di quest’opera. Od anche Sifnos, 1963 che ricorda la prima fase d’attività dell’artista; come in Salerno, 1933, anche in Sifnos, 1963 il soggetto è un bambino; la suddetta figura, in cima a una scalinata, si muove nervosamente (che stia danzando?). L’opera, in cui c’è un ampio gioco di luci e di ombre, pur nel bianco e nero, trasmette un grande senso di allegria e spensieratezza. Durante questi anni, il fotografo francese resta comunque ancorato al fotogiornalismo: risale al 1962 Il muro di Berlino, dove Bresson fotografa, ancora una volta, dei bambini che giocano a ridosso del muro; una bambina – nel suo vestitino logoro – si sta arrampicando sullo stesso, tentando, invano, di scavalcarlo. Al fotogiornalismo unisce anche tematiche più fresche e leggere: Canada, 1965 è una foto in cui compaiono tre bambini, sorridenti e ammiccanti, che si mettono in posa dinanzi all’obiettivo; sullo sfondo vi è un muro decisamente diverso da quello di Berlino, ‘sporcato’ dalle scritte e dai ricordi di passanti occasionali, mentre in primo piano campeggia un’automobile vuota, dalla quale spunta un peluche. Anche il rilancio dell’economia mondiale degli anni ’60 sembra una tematica cara a Bresson che in Bankers trust, New York City, 1960, trova il suo compimento: nell’ufficio di un banchiere, entra d’improvviso quella che supponiamo essere una donna (probabilmente la segretaria), la cui figura non cogliamo per intero, poiché Bresson fotografa soltanto parte di una gamba e il tacco della sua scarpa. Durante gli anni ’70, visita l’Est Europa, recandosi a più riprese in Russia. Del suddetto periodo mi colpisce una foto scattata in Romania nel 1975, intitolata In treno. Due amanti, stretti in un abbraccio, dormono alla bell’e meglio su un vagone; si può leggere in questo scatto il tenero struggimento dell’essere due solitudini abbracciate in un mondo freddo e brutale. Nel 1974 Bresson conclude l’esperienza con la Magnum Photos, dedicandosi fino alla morte, avvenuta nel 2004 a Montjustin (Provenza), esclusivamente al disegno. Quando esco da Villa Reale, non prima di aver sgranchito le gambe nell’enorme parco retrostante, penso che Bresson abbia raccontato la vita in bianco e nero meglio di chiunque altro. Sarebbe stato un buon motivo per non vederla mai a colori.



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