Arti Performative

Guido Lomoro // Nessuno dopo di te

Renata Savo

È stata una bella sorpresa, pochi giorni fa, scoprire da vicino il Teatrosophia, piccolo spazio Off nel cuore della capitale, dedicato alle proposte di giovani compagnie emergenti, almeno secondo la vocazione espressa dal direttore artistico Guido Lomoro. Teatrosophia si trova in pieno centro a Roma, aveva aperto i battenti nel 2018. Neanche il tempo di godersi una stagione intera che la pandemia è arrivata e ha arrestato il corso naturale delle cose. Forse è a causa di questo trauma se oggi il teatro non ha ancora, nonostante la riapertura con la capienza al 100% delle sue possibilità, una vera e propria stagione strutturata. Sta ora riprendendo la sua attività lentamente, con cautela, e così andrà avanti fino a quando non ci saranno le condizioni ideali per annunciare un programma definito. D’altra parte, la “sapienza” (sophia in greco) è nel nome dello spazio e, giochi di parole a parte, di sapienza ce n’è tanta nel lavoro che ha debuttato martedì 22 febbraio – e in scena fino a questa domenica 27 – dal titolo Nessuno dopo di te.

Nessuno dopo di te narra in sintesi la storia d’amore tra un escort, Mirko (Tommaso Sartori), e il suo cliente, Diego (Gabriele Giusti). Lo spettacolo è in qualche modo una lunga sequenza a episodi, in cui si snocciola l’evoluzione del legame tra Diego, benestante e bisognoso di amare e di essere amato, e Mirko, affascinante escort che del sesso ha fatto la sua fonte di reddito. Onde del mare in sottofondo aprono e chiudono la loro storia, descrivono sonoramente quella che potrebbe esser stata la location del loro primo incontro o forse la struggente e archetipica nostalgia di un cuore spezzato, l’andirivieni sonoro di un amore tormentato, tra le cui pause qualcuno prima o poi si lascerà andare o sarà abbandonato come nella migliore epica classica.

L’amore tra Diego e Mirko non è un amore come un altro. Entrambi ne sono consapevoli: non è un amore che passa indifferente. Non vorrebbe restare confinato tra le mura di una camera da letto, eppure lì giace, come ingabbiato, castrato, mortificato, restio a progredire, a uscire fuori allo scoperto. E, diversamente da come ci si aspetterebbe, non v’è un ostacolo reale, non un personaggio bigotto, un familiare o un amico benpensante, nessun elemento giudicante che farebbe piombare l’intreccio in anni cupi e lontani che ci si augurerebbe di aver superato (sebbene ne siano arrivati altri, di nuova cupezza). Non farebbe alcuna differenza se si trattasse di una relazione eterosessuale, già questo pone l’intreccio in un contesto decisamente realistico e attuale. Al massimo c’è un terzo elemento, il compagno di Mirko, e quindi una relazione aperta, ovvero una relazione sana nei termini in cui qualsiasi altra relazione esterna a quella tra Mirko e il suo compagno resti, di comune accordo, confinata entro quelle stesse mura, nell’ambito della sessualità e quindi, per Mirko, del suo lavoro. Poi c’è un altro intoppo, forse persino più realistico. Mirko, molto legato alla madre, ha un padre che lo ha abbandonato quando era molto piccolo. Si è rifatto un’altra famiglia, verso la quale le attenzioni rivolte sono di qualità ben diversa. Per questo Mirko teme di essere abbandonato anche nel suo presente e sta in un tipo di relazione che gli consente di sentirsi protetto. Per Diego le cose funzionano in modo molto diverso. Nonostante l’affinità, la chimica, e il piacere che deriva dalla compagnia di Mirko, vorrebbe che il loro rapporto diventasse quanto meno un legame affettivo, che vada oltre quello che accade sotto le lenzuola, e in sostanza non dipendente dal denaro. Prova a innescare lui stesso questa mutazione invitando Mirko a un concerto, per iniziare a uscire fuori, a frequentarsi, ma il progetto di andarci naufragherà quando il compagno di Mirko si accorge della loro relazione.

I corpi dei due attori, Gabriele Giusti (Diego) e Tommaso Sartori (Mirko), sono mine vaganti nello spazio, si insinuano con sicurezza nel piccolo corridoio della platea, a pochi centimetri dal nostro sguardo. Così ne apprezziamo il talento e la solida preparazione, l’accortezza con cui si approcciano ai rispettivi ruoli, che sono ruoli delicati, complessi, sia sul piano fisico sia psicologico. L’esito è un successo: merito sicuramente, oltre che del lavoro di regia, anche degli studi condotti, l’uno all’Accademia Teatrale Sofia Amendolea di Roma e l’altro alla Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna. Arrivarci a una prima così, con la loro sicurezza, costa fatica e impegno; una dedizione, verrebbe da dire, grotowskiana, dolorosa, perché comporta una denudazione completa, fin dentro gli strati più intimi del proprio essere. Ma si assapora anche il ricordo dei corpi del Tanztheater Wuppertal in Café Müller, di cui ricorre anche  come citazione il lamento di Didone musicato da Purcell nell’opera Dido and Æneas, quando urtano contro le pareti della scena, anche se lo fanno con una violenza di gran lunga maggiore, che appare addirittura incontrollata, proprio come vorrebbe essere il loro amore. Si toccano e si spogliano poeticamente, metaforicamente, in una forma di stilizzazione dell’eros che tocca tecniche di danza come la contact improvisation, e anche passaggi acrobatici, grazie all’impresa stupefacente compiuta in sole sei settimane di prove da Maria Concetta Borgese, che firma le coreografie e i movimenti scenici, mentre Guido Lomoro è l’autore del testo, il suo primo di cui decide di curare anche la regia. Una drammaturgia lineare, ben scritta, poetica e dinamica, che dà adito a delle riflessioni, sui nostri bisogni profondi, sul modo in cui scegliamo di vivere l’amore e sulle compatibilità affettive e relazionali.

 

[Immagine di copertina: foto di Lorena Vetro]



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