Frosini/Timpano in scena con “Acqua di colonia” a Mutaverso Teatro. Intervista a Daniele Timpano
Acqua di colonia, grande successo della premiata compagnia Frosini/Timpano, è il settimo appuntamento di Mutaverso Teatro, la stagione salernitana curata e diretta da Vincenzo Albano. L’ironia dissacrante, l’irriverenza del geniale duo di interpreti, già ospiti di Erre Teatro nel 2015 all’interno della rassegna “Per Voce Sola”, per una disamina pungente sul colonialismo, male endemico del nostro passato nazionale, presente e persistente ancora oggi nell’immaginario comune e nella cultura popolare: quest’Africa di cui in passato siamo stati colonialisti, e di cui tuttavia così poco sappiamo, il continente nero desertico e sconfinato da cui provengono i tanti “estranei” che bussano alle porte dell’Europa.
Un’associazione implicita tra il presente e la nostra storia coloniale – ci dice Daniele Timpano, incontrato in prossimità della data salernitana – fin dalle prime battute, nello spettacolo una situazione banale e quotidiana, seduti ai tavolini di un bar ed interrotti dall’irruzione di un altro, dell’Altro che cerca di venderti la rosa o i grattini per la schiena, quel fastidio che ti assale, misto ad un vago ma strano senso di colpa. Per noi in scena un pretesto, che ci congiunge al dato storico: una storia che dura circa sessant’anni, dal 1882 fino a dopo la seconda guerra mondiale. Una storia dimenticata, limitata a qualche vaga reminiscenza, a qualche nome di strada o di piazza, alla guerra d’Etiopia, a qualche strage fascista… Il Colonialismo italiano, nell’immaginario comune, è per lo più appiattito sulla breve stagione del Colonialismo fascista. Eppure la nostra è un’eredità coloniale che risale ai governi liberali dell’Italia post-unitaria. In particolare, notevole paradosso, il fascismo ha ereditato e proseguito, con evidente continuità, la politica coloniale avviata dalla sinistra storica, per iniziativa dell’esecutivo De Pretis, poi perseguita con vigore dal governo Crispi. In conformità con le coeve politiche europee, il colonialismo italiano era figlio della necessità di affermazione internazionale: l’Italia appena riunita, lo stato nazionale appena costituito cercava, anche attraverso la politica coloniale, l’affermazione ed il riconoscimento internazionali. L’Italia ha sempre speso molto per conquistare e mantenere i propri possedimenti coloniali, molto più di quanto abbia ricavato in termini di sfruttamento delle materie prime, o di prestigio effettivo.
Uno sfruttamento che tuttavia ha lasciato tracce evidenti.
C’è sicuramente un legame, asimmetrico, tra il nostro paese ed i paesi colonizzati: se il paesaggio urbanistico di alcune città dell’Africa orientale o in Libia reca le tracce più evidenti della colonizzazione italiana, Tripoli o Asmara per esempio, è sorprendente come in Etiopia, dove non ci siamo trattenuti che scarsi cinque anni (anche se abbiamo provato più volte a conquistarla per almeno 50 anni!), siano rimaste diverse tracce anche sul piano linguistico, in numerosi italianismi. Molti somali o eritrei, sto parlando soprattutto della generazione degli attuali cinquanta-sessantenni, hanno studiato l’italiano, in scuole dai nomi italiani, in vie dai nomi italiani. Sopravviveva in loro un’idea mitica di Italia, che era poi quel che restava di una auto-rappresentazione idealizzata degli italiani colonizzatori. C’è un romanzo di Garane Garane (“Il latte è buono”) che spiega la questione molto bene. È la storia dello stesso autore, somalo, che ha dell’Italia una visione decisamente ideale, che cresce con il mito dell’Italia madrepatria comune e perduta. Tuttavia, venuto in Italia negli anni ’70, resta in un primo momento interdetto nel trovare le strade di Roma anche più disastrate rispetto a quelle del suo paese d’origine, ma sopratutto, sono gli italiani la vera delusione: tutti a trattarlo “come un negro qualunque”, lui che aveva studiato l’italiano di Dante e di Pascoli, tutti a stupirsi che questo straniero parli così bene la loro lingua. E poi, questi italiani, così poco affini all’immagine che se ne era tramandata: uomini altissimi, biondi ed aitanti, ed invece, scuri e crespi, così simili agli arabi.
Un mito ereditato dalla dominazione fascista.
C’è come detto una continuità totale tra la politica coloniale dei governi liberali e l’Italia fascista, anche se è con il fascismo che si manifesta apertamente la politica razziale. C’è una legge del 1937 che vieta i rapporti tra italiani e donne africane. Ci sono leggi e regolamenti da apartheid, come ad esempio negli edifici di potere, dove i bianchi godono di una corsia preferenziale per l’accesso, mentre agli autoctoni è destinato l’uso di un ingresso secondario. Accorgimenti che “perfezionati”, troveremo tutti nelle leggi razziali del 1938: qui cambiano i fattori, gli ebrei invece degli africani, ma il risultato resta comunque invariato.
La storia, l’identità italiana sono una costante della drammaturgia di Frosini/Timpano.
Il nostro sguardo è sempre rivolto al presente, è il presente il nostro punto fermo per l’osservazione storica e la scrittura di ogni nostro spettacolo. Se in “Risorgimento Pop” (2009) al centro dell’attenzione vi era un mito parecchio impolverato e contraddittorio, il mito di fondazione ufficiale del nostro Paese, già “Dux in scatola” (nel 2006), nasceva dal riconoscere una crisi profonda, personale e collettiva: quella dell’antifascismo, un valore certo da difendere, e tuttavia minacciato, attaccato da più fronti, logorato forse da una retorica eccessiva, inghiottito dall’oblio, insomma sempre più spuntato e inefficate. Da sempre, l’interesse del nostro lavoro è identificare nel fatto storico delle contraddizioni irrisolte. Nel caso di questo spettacolo, il conflitto è innescato direttamente dalla figura stessa del protagonista, un Mussolini che parla attraverso il corpo dell’attore, che è insieme Timpano antifascista e Mussolini fascistissimo, che è l’icona stereotipa del male e cerca intanto di commuovere gli spettatori, esibendosi nello spettacolo della propria morte, e mostrando a tutti le proprie spoglie martoriate.
Di Frosini/Timpano è particolarmente viva ed interessante anche la militanza sui social.
La nostra “presenza” si articola lì su vari fronti. Da un lato, quello esplicitamente promozionale, sulle repliche o sul making of delle nuove produzioni, attraverso una serie di piccole strategie di comunicazione: post, foto, video, tante invenzioni legate alla promozione ed alle tournée. Attivi e con costanza, cerchiamo di non essere troppo banali, di mantenerci in una linea di coerenza con gli spettacoli, proponendo a volte anche ciò che non vi ha trovato posto: taccuini di appunti, bozze, suggestioni ulteriori. In quanto “artisti” cerchiamo di utlizzare creativamente pure i social. Penso ad esempio a “Zombitudine” (2013), cui è legata la promozione spontanea di spettatori che postavano le proprie foto con la locandina dello spettacolo, o la documentazione dei nostri contributi aggiuntivi, come “Italiani bravi morti”, un ciclo di teaser e cortometraggi a tema ideato per noi da Emiliano Martina e Alessio Rizzitiello, oppure le riprese attraverso smartphone delle performance urbane “Walking Zombi” nei centri storici di tante città italiane, tutte legate allo spettacolo e diffuse attraverso i nostri canali social e Youtube. Quando riusciamo, tentiamo di proporre una bollettino settimanale di consigli sugli spettacoli degli altri, che ci paiono importanti da vedere, fornendo a volte anche documentazioni e considerazioni ulteriori; dal semplice video degli applausi a qualche riflessione sui lavori ai quali siamo riusciti ad andare. Fondamentalmente, visto che a noi il teatro piace molto, e vedere spettacoli per noi è bello ed importante, siamo sempre felici quando riusciamo a strappare qualche spettatore al finger food, all’alcolismo, a un dj set.