Arti Visive Mostre

Francesco Vaccaro. Nient’altro che storia @ Maschio Angioino, Napoli (NA)

Maria Ponticelli

Un bottone sigillato in un sacchetto di plastica introduce alla personale di Francesco Vaccaro, artista calabrese che nella sua ricerca indaga i concetti di memoria e di scrittura, essa è intitolata Nient’altro che storia ed è ospitata dalle sale della Biblioteca della Società di Storia Patria all’interno del Maschio Angioino. Il bottone appartiene allo storico napoletano Francesco Galasso ed anche il titolo della mostra rievoca un suo libro. La storia quindi come traccia permanente del passagio degli uomini e la scrittura come strumento di imprinting della storia stessa. Il percorso espositivo ci conduce nel tentativo di dare un peso, una consistenza e una profondità alla scrittura; il video intitolato Che tu sia per me il coltello richiama il famoso libro dello scrittore israeliano David Grossman e restituisce il senso viscerale e “invasivo” della scrittura nel suo fendere la dimensione più interna dell’animo umano. L’artista non dimentica pertanto di citare all’interno di una light-box l’etimologia stessa della parola scrittura che nasce, e sviluppa il proprio campo semantico, intorno all’idea di tracciare segni. Il segno quindi come corpo della parola, come plasticità e dimensione tangibile del pensiero. E la scrittura a sua volta prende corpo nell’immagine di un fiore secco in Qui sto senza paesaggio, e nelle immagini dei maggiori autori della letteratura italiana del novecento nella installazione Dalla finestra ti vedo, ritratti impressi nella riproduzione di volumi tascabili e visti dalla prospettiva del ventunesimo secolo. Altre opere appartenenti alla raccolta Romanzi minori compongono una installazione fatta di foto, testi, titoli come Non sanno di essere morti, L’ora preferita della sera, Memorie di un giovane poco adatto alla vita, frapposti agli antichi volumi della biblioteca come a rivendicare un posto tra di essi, un ruolo e una dignità che la storia non ha adeguatamente riconosciuto. Di tanto in tanto, nello scorrere le prime opere della esposizione, il visitatore viene sorpreso da un rumore proveniente dal fondo della sala, si tratta delle palette dei teleindicatori, una volta utilizzati all’interno delle stazioni per segnalare partenze e arrivi dei treni. Le antesignane dei contemporanei display compongono gli stessi titoli delle opere esposte all’interno del percorso, così è nuovamente possibile leggere Qui sto senza paesaggio, dapprima scritto su di un cartoncino con un leggero tratto a matita e qui rivelato invece in maniera perentoria dalla categorica scansione ritmica delle palette elettromagnetiche. Qual è quindi l’essenza di tali parole, quali il peso e la gravita? È intorno a tali domande che l’autore ha inteso sviluppare il senso dell’intero percorso espositivo: le parole hanno una sostanza e come tali sono anelli di fumo che si dissolvono all’esterno oppure grandine che buca il terreno. Il titolo della installazione è Non è dato sapere con le parole; essa avvia verso la fase conclusiva della mostra. Quelli che seguono sono frammenti di testi, citazioni che esplicitano l’importanza della parola che fa, che crea con la sua potenza generatrice, che partorisce significato e restituisce valore. Tra di esse delle foto: dettagli di germogli su rami verdi, come a dire che la scrittura è viva e vive di una forza autorigeneratrice e salvifica nel suo potenziale taumaturgico. Il senso profondo che l’artista rivela nella pienezza del suo lavoro espositivo sta nell’ultima opera che chiude la mostra Anche questo silenzio è colpevole, nella negazione quindi della parola stessa e del segno grafico che la immortala. Il silenzio come antitesi alla parola ma non per questo meno potente; il silenzio come fenomeno di implosione, capace di impattare con il retro di una busta da lettera rimasta chiusa e che da le spalle al mondo col suo vuoto di cose non dette.



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