“Vocazione” di Danio Manfredini. Appunti di una visione
“Perché quando il dolore è più grande poi non senti più e per sentirmi vivo ti ucciderò”.
Partirei da qui. Partirei dall’idea che questa restituzione scenica sia l’ancora di salvezza per tornare a vivere. Partirei immaginando l’uccisione dal vivo del luogo causa di questo male di miele. Un atto d’amore in presenza della componente fondamentale che rende il teatro un luogo di passaggio d’emozioni. Il pubblico, la scena, il buio in sala e un’altra esistenza che si prefigura.
Qui si parla di vocazione. Qui c’entra la dedizione di un uomo che di mestiere presta il corpo al proprio demonio, alla sua ragione di vita. Non si sceglie, si segue per quanto dolorosa essa possa essere. C’entra l’identità di un uomo che si scopre nelle vite altrui, la maschera indossata per alterare voce-corpo e identità, c’entrano quei costumi che di volta in volta danno vita ad un altro da sé che di sé si compone, perdendosi. Allora è il corpo a parlare, metaforico, infernale, poesia del gesto accennato, ma anche della parola sferrata, o del movimento scandito dal ritmo di quel tip tap, dall’intima condivisione del gioco-vita con Vincenzo del Prete. Ed è attraverso l’uomo attore che cado nella personale interpretazione del conflitto, ci sono anche io, sfiancata dall’evidenza della possibilità che ciò che più ami possa al contempo ucciderti.
Non posso e non devo elencare le emozioni che ho provato, so che tra noi si è stretto un patto per cui dovevo abbandonarmi all’ascolto e alla visione e che non dovessi farlo come con la penna di un critico. Mi restano immagini, violente spesso, di un corpo che si traveste e trasforma. Provo a sanguinare dallo stesso corpo e ad immedesimarmi in quella sofferenza. Stiamo vivendo lo stesso percorso.
Spesso mi è capitato di vedere spettacoli di teatro-ricerca in cui ero posta in una condizione di distacco, osservatrice di un quadro o di una dinamica, di un processo più che di un percorso. Ero certa che il regista si fosse dimenticato di me, avesse sottovalutato la presenza, al di là del palco, di un interlocutore pronto a ricevere non solo un’esperienza estetica ma un moto dell’anima.
Assisto ora inerme e partecipe, coinvolta e immersa nella potenza delle immagini, di quel teatro che si compone dopo essersi scomposto, che assume un senso nella sua incompiutezza, nella sua apertura ad infinite possibilità emotive. Mi sento suddivisa, arricchita. Riesco a riconoscere alcune immagini, non tutte. Importa? Rimango ancorata alla stretta di quel legame indissolubile tra il palcoscenico e la poltrona, tra il corpo dell’attore e il corpo fisico e interiore dello spettatore. Siamo al punto di non ritorno, avanti o indietro.
Il Gabbiano di Cechov. E’ in quell’immagine che riconosco la sofferenza, ma anche la spinta alla liberazione, quella capacità di trasformare il corpo in una sensazione fisica traducibile in un brivido. Le ali sbattono forti, si aprono come a voler contrastare un ostacolo, opporre resistenza alla forza di gravità. La mia immaginazione conclude quell’atto, il gabbiano volerà. Percepisco in quei sentimenti di ansia, dolore e disagio la spinta propulsiva a diventare altro, a trovare la forma che assorba l’energia.
Mi si prefigura dinnanzi una scena suddivisa in piani, una narrazione la cui struttura è costruita per essere percepita nella sua frammentazione, volta a introdurmi ad un sentimento, ad un’emozione, forse un disagio. Nel corpo, nei corpi, scorre la vita, al confine tra la sua rappresentazione e la sua esistenza. Siamo nella lotta e nel conflitto, schierati nella trincea del corpo di un attore in possesso delle vite altrui e che in quelle esistenze trova la sua ragion d’esistere.
Al termine si tirano le somme, la vocazione è la passione, è il motore, è la spinta in tempi in cui alla spinta si oppone una resistenza, spesso negativa. La scelta è andare avanti, seppur per morirne, o cedere. Non c’è bivio fisico, il tutto scorre senza che l’indizio sia svelato. E qui non interpreto il ruolo dell’osservatrice, sono partecipe di un collettivo momento di rinascita e consapevolezza, che durerà forse il tempo di uno spettacolo, forse il tempo di un monologo, forse porrà il seme di una scelta. Sarà comunque una rinascita.
Torneremo a scorrere, recita il pezzo della canzone degli Afterhours, interpretata da Danio Manfredini. Immagino che la rassegnazione alla vocazione sia in fondo l’accettazione profonda di un amore fatto di solitudine, gioia e gloria. E se “l’amore è una patologia, saprò come estirparla via”.
Mi concedo quello sforzo, quell’ultima briciola di attenzione rimasta per osservare il pubblico uscire dalla sala. Scelgo di concentrarmi sulle esperienze altrui, ne sono curiosa.
Esco in fondo con la convinzione che una singola visione non sia sufficiente per assimilare, perché resti impresso il movimento, la gestualità, l’espressione. Colgo il necessario, lascio che la mia attenzione si posi su quello di cui sente il bisogno: un colore, un oggetto, un espressione, decidendo di perdere. Vorrei la totalità, ma è questo il senso?
In fondo trovo sguardi pieni, provati, persi, occhi stretti e concentrati ancora. Penso che quel senso di appassionata solitudine abbia attecchito e che quella fila composta che ha abitato il teatro si sia ora disgregata in una profonda unione individuale. Abbandonata e conquistata. Forse il pregresso, il background, l’umore, la sensazione: tutto concorre alla creazione di un sentimento che senza presunzione viene lasciato liberarsi nelle vene dello spettatore.