Santarcangelo 2016 | Il romanticismo della visione ciclica che ha mostrato l’invisibile
Il racconto di un giorno di festival a Santarcangelo dei Teatri è spunto di riflessione sulla visione romantica di questa edizione, l’ultima diretta da Silvia Bottiroli, giunta a conclusione di cinque anni di mandato.
Una volta, in un giorno di primavera, qualcuno mi disse: «Ci sono giorni che hanno dentro altri giorni. Ogni minuto è un mondo parallelo, ogni respiro è una possibilità d’infinito». È vero, pensai. È una questione di sguardo, di ampiezza dello sguardo: tutto dipende da se si riescono a vedere cose al di là del tempo che percorriamo, del singolo respiro o battito, da se ci sforziamo o meno di vederle insieme, in un solo giorno come se fosse l’ultimo.
Dopo aver trascorso una giornata allo storico Festival di Santarcangelo dei Teatri, a pochi chilometri da Rimini, non solo ho creduto che esistono giorni che contengono altri giorni, ma che possono accadere giornate così malinconiche e/o lungimiranti da avere dentro anni interi; in questo modo è passato davanti ai miei occhi il tempo, alla 46° edizione del “Festival internazionale del teatro in piazza”. Un giorno cominciato da una stazione di Roma alle sei del mattino: tra un treno e l’altro, per raggiungere la riviera romagnola, e tra un lamento e l’altro, perché l’aria, come avviene non di rado sui treni regionali, è irrespirabile, caldissima, per l’assenza di un sistema adeguato di condizionamento (e mancano anche le prese di corrente elettrica). E in quel giorno fatalmente non qualunque, ho modo di accorgermi della pochezza di qualsiasi capriccio; un valore pari a meno di zero, considerato che altrove, nello stesso intervallo di tempo, due treni si stanno scontrando su un binario, l’unico della tratta ferroviaria Corato-Andria, provocando un incidente irragionevole e disastroso, che nella collisione annienta decine di vite umane e procura vuoti, dolore, in moltissime altre.
Raggiunta Santarcangelo, nonostante la calura estiva e l’inquietudine per l’accaduto, si avverte la presenza di una memoria consolidata, che trova origine in un prezioso documento datato 3 maggio 1971 e conservato all’ingresso della Biblioteca Antonio Baldini, posta nelle immediate vicinanze della piazza Ganganelli, il cuore del paese dove per l’occasione è stato montato il punto informazioni ufficiale del festival, a testimonianza di quanto Santarcangelo dei Teatri, che si svolge da quarantasei edizioni per poco più di una settimana nel mese di luglio, sia un evento non soltanto centrale dal punto di vista geografico, ma persino identitario rispetto all’intero anno solare:
«L’iniziativa ha lo scopo di favorire l’integrazione fra turismo balneare ed entroterra, valorizzando le cose di Romagna ed in particolare del nostro Comune e non mancherà di costituire elemento prezioso di incentivazione per l’economia locale. Essa inoltre, oltre che coprire un vuoto nelle esigenze in evoluzione delle decine di migliaia di turisti che frequentano la riviera, consiste in manifestazioni artistiche di alto livello culturale e folkloristico a carattere nazionale ed internazionale […] che si svolgeranno sulle piazze del nostro Comune nella suggestiva cornice del Centro Storico».
Ma la memoria, quest’anno in particolare, ha avuto un nome, anzi, due: Flavio Nicolini, intellettuale, docente e artista santarcangiolese legato ai primordi della storia del festival e scomparso nell’ottobre 2015, e Sandra Angelini, l’organizzatrice o altrimenti nominabile, forse, come la dolce anima dei riminesi Motus, il gruppo teatrale nato nel 1991 per opera di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò che ha mosso al festival di Santarcangelo dei Teatri i suoi primi e fondamentali passi, per arrivare oggi a essere una delle formazioni di ricerca italiane più famose al mondo.
Alla memoria di Sandra, anche lei venuta a mancare – assai prematuramente – all’inizio del 2016, e a quella di Flavio Nicolini, il festival ha dedicato la sua apertura l’8 luglio, allo Sferisterio, con un evento performativo curato da Luigi De Angelis e la partitura sonora di Emanuele Wiltsch Barberio, Lumen, una sorta di rito sciamanico ripetuto il 10 luglio (al lago Santarini) e il 12 luglio (dove vi abbiamo preso parte, alla Cava lungo il fiume Marecchia): ancestrale come un cuore d’artista che pulsa, come una danza di fuochi fatui su un cerchio di legna che arde tra i soffi tiepidi di un vento estivo, Lumen non è solo uno spettacolo, è un rito collettivo che può trasformare il luogo in dance floor o semplicemente renderlo punto d’incontro per un avvicinamento sempre più intimo, per un annullamento di distanze fisiche e temporali, catturando una successione condivisa di attimi che riporta tutti indietro, all’indescrivibile mistero di ciò che sotto la pelle siamo e percepiamo.
Questa edizione, d’altra parte, non poteva non incarnare una visione ciclica, capace di mettere insieme gli anni nei giorni, il passato e il futuro nel presente continuo della manifestazione (da qui il nostro incipit), somatizzando un’idea di festival che, sorprendentemente, come ha affermato la direttrice artistica Silvia Bottiroli, da quasi mezzo secolo «continua a ricominciare».
Il passato, oltre che nella memoria celebrata e incorporata dal paesaggio sonoro arcaicizzante di Lumen, si ripropone nell’installazione sonora Antologia di S. di Riccardo Fazi al Ristorante Zaghini: il racconto di una ricerca esasperata, di una donna incontrata 23 anni fa nella stessa Santarcangelo. La visione romantica di un passato che il tempo ha idealizzato è già nella scelta del medium: le immagini sono sottratte alle parole degli abitanti di Santarcangelo intervistati come una forma che sfugge alla sua comprensione, come il suono sordo di un bacio rubato a una ragazza senza nome, irraggiungibile e sospesa tra verità e invenzione, tra desiderio erotico e desiderio artistico. Fazi impersona, attraverso la sua ricerca, il ruolo dell’artista romantico e inquieto che prima di donare un volto alla sua opera sente il bisogno di intraprendere un’inchiesta senza fine nel tentativo di trasfigurare in realtà un viso bagnato dal ricordo; di tradurre il pensiero scolpito dal tempo nel sembiante reale della sua musa.
Come una fenice che risorge dalle sue ceneri, il festival ha ricominciato, così, dal desiderio di lasciarsi attraversare dagli elementi naturali: dal fuoco, dall’acqua, dalla terra, veri e propri leitmotiv della manifestazione. Oltre al già citato Lumen, la natura è stata protagonista all’interno dello stabilimento Paglierani in via Emilia, oggi dismesso e adibito a deposito, dove sono state poste – a distanza di un corridoio che di per sé è un mondo altro, come se un’antica compagnia capocomicale avesse lì riposto costumi, arredi e storie dei loro tour secondo una successione potenzialmente narrativa – due installazioni artistiche diverse e complementari: Ghezz della compagnia friulana Cosmesi e Thirst dell’artista lettone Voldemārs Johansons. Thirst rappresenta il paesaggio romantico e impetuoso di una riva oceanica: su un maxischermo, le onde enormi e innocue nella loro bidimensionalità assalgono i sensi dello spettatore procurandogli il piacere, avrebbe detto Immanuel Kant, della contemplazione di un “sublime dinamico” per mezzo di una visione, la potenza annientatrice della natura nella cui proiezione l’uomo avverte il proprio limite; laddove, diametralmente opposta, l’installazione di Cosmesi esprime il concetto di “sublime matematico” nella riproduzione scenografica su scala ridotta di un paesaggio immobile e fuori dal tempo, naturale nell’aspetto ma artificiale nella sua materialità.
E se guardare la realtà, voltarsi indietro, comporta la scomparsa di un’immagine, similmente al cantore Orfeo che nell’atto della visione perde per sempre la possibilità di riportare in vita la sua Euridice, la malinconia degli anni che passano si esorcizza girandosi nuovamente dall’altra parte, con gli occhi puntati verso l’orizzonte. Sotto questi occhi che si sforzano di restare aperti nonostante il bagliore della luce, s’intravede la possibilità di un futuro equo e solidale offerto da una nuova forma di progettualità condivisa con il pubblico, che ha visto l’adesione anche di altri festival dedicati alla scena contemporanea (Short Theatre e il Terni Festival). È il futuro rappresentato dal Fondo Speculativo di Provvidenza, grazie al quale con un euro pagato (anche dagli addetti ai lavori) in più sul titolo d’ingresso è stato possibile raccogliere un capitale che sarà investito nella realizzazione di idee proposte, e rilasciate per iscritto su una lavagna, da tutti i contributori, rispondendo alla necessità di unire le forze, di sentirsi parte di un insieme in cui le idee di chi sta dall’altro lato, quello della fruizione, hanno diritto di esistere, o almeno di essere pronunciate, quanto chi le produce consegnandole alla forma.
Il futuro, ancora, si manifesta in un delicato momento di passaggio per la storia del festival e, in quanto limen, ingloba tutto quello che c’è stato prima. Siamo giunti, infatti, al termine di cinque anni di direzione – volutamente terminata con un anno di anticipo – curata da una mente vulcanica e tellurica come Silvia Bottiroli, studiosa curiosa e caparbia con la vocazione per l’organizzazione e la sistematizzazione, e alla consegna del testimone alla mercuriale Eva Neklyaeva, bielorussa di nascita, finlandese d’adozione: un’altra donna piena di risorse, con alle spalle una carriera internazionale in campo artistico e una storia personale – è figlia di Uladzimir Niakliaeu, poeta bielorusso, candidato alle elezioni presidenziali, perseguitato e imprigionato per la sua opposizione al governo di Alexsandr Lukashenko – che ne fanno «una figura esemplare del mondo globale di oggi». Come si legge sul comunicato stampa che ne annuncia il subentro per il prossimo triennio 2017-2019: «Arrivata in Finlandia nel 2000 dalla Bielorussia ha imparato da subito cosa significhi doversi orientare in una realtà nuova. Il suo sguardo di “outsider” si è trasformato in un punto di forza nei suoi interventi sulla scena artistica finlandese».
I cinque anni di direzione del lungimirante sguardo di Silvia Bottiroli appena trascorsi – come ha sottolineato il sindaco e Presidente dell’Associazione Santarcangelo dei Teatri Alice Parma durante l’evento di ufficializzazione della nuova direzione artistica del Festival – saranno senza dubbio ricordati come determinanti, significativi al pari di quelli che vengono ricordati più spesso da chi ha vissuto tutta la storia della manifestazione. E nella consapevolezza di questo, ci si affida con il cuore lieve all’esperienza della direttrice entrante. Con l’augurio di una visione rinnovata, sì, ma ancora ciclica e partecipe, per diventare memorabile e straordinaria.