Ricordi di uno spettacolo (un inverno) inatteso, dentro e fuori la scena
Dal 10 al 17 novembre al Teatro Studio Eleonora Duse di Roma è andato in scena il saggio di diploma del giovane drammaturgo e regista Lorenzo Collalti. Vi dedichiamo una polifonia a quattro voci: due nostre e due del cast.
«Questo spettacolo è appena iniziato… e io già non ci sto capendo niente». La citazione? Una confessione anche personale, con simpatica ironia (e autoironia dell’autore).
Questo perché Ricordi di un inverno inatteso è un testo – scritto e messo in scena da Lorenzo Collalti, enfant prodige e diplomato d’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” – che elude qualsiasi aspettativa: una macchina celibe dove si mette a nudo la duplice essenza del teatro (e quindi della vita), la fatica e l’assurdità, e che s’inceppa, quasi per caso, ritrovandosi a vivere tra le mani di un bambino che mentre gioca ride e si sorprende.
Da una parte c’è un canovaccio già scritto – e pronunciato di volta in volta in anticipo sull’azione – dall’altra, la sua materiale rappresentazione scenica. Le parole, i personaggi, l’ambientazione forse giacciono sulla pagina da sempre, familiare e antico risuona il nome della polis in cui la vicenda si svolge, Arcadia, nella letteratura classica legato al paesaggio idilliaco e bucolico. Un paradosso, quindi, per la città protagonista di questo spettacolo, governata da leggi tutt’altro che civili e auspicabili per il suo popolo.
Il tempo in questo regno di matti è un liquido passato che si scontra con il futuro e si riversa in un presente apparentemente interminabile. Un mondo dai contorni fantastici prende forma sotto gli occhi dello spettatore, sembra fiorire per la prima volta e destinato a morire per rinascere come una stagione: la storia si dipana infatti nell’arco di un inverno lungo cinque anni. A darne l’avvio, due personaggi, Gianni e Giovanni (Luca Carbone e Stefano Guerrieri), che girano in tondo nello spazio angusto e vuoto della scena: tra loro, unica presenza inanimata, una “carretta” che letteralmente “tirano”, a vuoto. Gli sforzi privi di scopo dei due si offrono allo sguardo come metafora della vita moderna votata al sacrificio e rotante intorno a un unico centro. Il carro in questione, poi, a dirla tutta, è un oggetto in legno proteiforme che funge nel corso dello spettacolo da piedistallo, letto, ghigliottina, e altro ancora.
Definito da qualche parte “onirico”, il racconto è più simile all’ossimoro di una cosciente follia, un sogno a occhi aperti che rimbalza tra diversi possibili schemi di interpretazione: primi fra tutti, il plot di uno straniero che fatica a integrarsi in un contesto diverso da quello di provenienza e quello di un artista incompreso, che deve lottare contro tutto e tutti per trovare un clima favorevole all’ispirazione artistica.
È quasi superfluo spendere parole sulle qualità interpretative, naturalmente eccellenti, di tutti gli attori (Grazia Capraro, Luca Carbone, Stefano Guerrieri, Emanuele Linfatti, Pavel Zelinskiy), scelti con cura e immersi bene nei propri ruoli; mentre più interessante ci sembra sottolineare la maniera in cui le loro sagome emergono grazie agli elaborati costumi di Gianluca Falaschi e il disegno luci di Sergio Ciattaglia. Lo sfondo coincide con un telo che cade a formare una curva con la superficie orizzontale del palco, il suo colore lo rende simile alla carta ingiallita dal tempo, a pronunciare la natura della scena come un flusso unico, un’onda, capace di ripiegarsi e di travolgere i personaggi: nella relazione con gli attori, va a comporre così una sorta di raffinato altorilievo, mentre l’intonazione vira invece su toni decisamente più “fumettistici”. Una menzione occorre: Agnieszka Jania, attrice polacca diplomata alla Ludwik Solski State Drama School di Cracovia; la sua presenza, quasi immaginaria, sta allo spettacolo come delle parentesi profondamente oniriche, e la sua danza che alterna movimenti scattosi e serpentini rende omaggio alla bidimensionalità dello schermo cinematografico, e in particolare, al cinema muto delle origini.
Una fiaba antica e moderna insieme, una (tanto) divertente fantasmagoria, questo Ricordi di un inverno inatteso. Tra intuizioni pirandelliane, citazioni letterarie, iconografiche e semplici elucubrazioni mentali, viene tradita una sapienza enciclopedica vastissima. Davvero in grande quantità la “carne sul fuoco” per costituire l’esordio di un drammaturgo e regista Under 25, al punto che l’unico “peccato” di Collalti, a volergliene attribuire a forza uno, risiede nell’eccesso di ardore per il teatro tale da far nutrire aspettative molto alte per i suoi progetti a venire.
Di sicuro, la prova registica sostenuta appare molto di più di un “saggio di diploma” e attesta – o conferma (come nel caso di Grazia Capraro, che avevamo recentemente visto al festival ContaminAzioni) – il miracolo di talento e perizia dei giovani allievi che escono dalla “Silvio D’Amico”.
Se così stanno le cose, nei prossimi inverni toccherà attendere, per poi ricordarsene, qualche bella e meritata tournée.
Di seguito, pubblichiamo quindi alcune riflessioni scambiate dalla nostra Gertrude Cestiè con due attori del cast, Luca Carbone e Stefano Guerrieri.
Gertrude Cestiè: Vi abbiamo visto in scena in Ricordi di un inverno inatteso, spettacolo saggio di diploma di Lorenzo Collalti, allievo regista all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. Stefano Guerrieri si è diplomato nel 2015, Luca Carbone a luglio scorso: com’è stato tornare a lavorare nell’ambiente che vi ha formato anche dopo il diploma e in particolare lavorare con Lorenzo?
Luca Carbone: Tornare all’interno dell’ambiente accademico da diplomato e professionista è un’esperienza senz’altro diversa, non sei più all’interno di meccanismi scolastici ma ti ritrovi a confrontarti con i tuoi colleghi in maniera più matura, cosa che ho potuto riscontrare soprattutto con il mio compagno di scena Stefano Guerrieri. Con Lorenzo mi è capitato più volte di lavorare durante il mio percorso accademico e quest’ultima esperienza posso considerarla un piccolo coronamento del percorso di formazione fatto insieme. In lui ho potuto trovare un collega e un amico per il quale nutro profonda stima.
Stefano Guerrieri: Ritornare a lavorare in Accademia ha avuto in questo caso una valenza particolare. Si è creato un gruppo formato da allievi di diverse classi. Ognuno ha portato con sé quello che conosceva, ma si è in parte fatto contaminare dagli altri e ne è nato un ambiente di lavoro propositivo e creativo, fondamentale in uno spettacolo come Ricordi di un inverno inatteso. Nella storia che avete visto raccontare sul palco ognuno ha lasciato una parte di sé: dagli attori, al regista fino al costumista, alla sarta e al direttore di scena. Avevo visto altri lavori di Lorenzo Collalti e avevo particolare desiderio di incontrare la sua drammaturgia. È una scrittura affascinante che si allontana dagli stereotipi e, altre volte, parte proprio da questi per prendersene gioco e aprire porte verso luoghi inaspettati. È stata fondamentale la sua presenza in qualità di regista. Ha lasciato una grande libertà agli attori nel loro incontro con le parole e coi personaggi, ma ha saputo rendere “sacra” e fondante la struttura ritmica del testo, fondamentale nelle “macchine teatrali” presenti all’interno dello spettacolo.
G.C: Quanto è importante il contesto, professionale e personale, che un’Istituzione come l’Accademia permette e vi ha permesso di costruirvi intorno?
L.C.: È sicuramente molto importante il contesto in cui l’Accademia riesce a crescerti: si impara ad affrontare la realtà esterna della professione. Ho imparato molto, ma comunque la strada sarà ancora lunga.
S.G.: L’Accademia è una grande palestra professionale e di vita, nei suoi aspetti positivi e negativi. Ti permette a volte di entrare in contatto con modalità di lavoro molto diverse tra loro favorendo una plasticità mentale e una capacità di cambiamento e di rinnovamento. A volte invece ti porta a lavorare per molto tempo su uno stesso testo o con lo stesso insegnante fino ad uno sfinimento che comunque ti accompagna verso la scoperta di qualcosa di te: il tuo approccio ideale all’arte, schemi mentali, il coinvolgimento personale all’interno del professionale.
È una struttura fondamentale quando è in grado di favorire un passaggio dal momento della formazione a quello lavorativo. In questo anno e mezzo dal mio diploma mi sono reso conto di quanto l’ho amata e quanto l’ho odiata e questo significa che ha lasciato un segno profondo dentro di me.
G.C: In scena interpretate le due guardie della città immaginaria di Arcadia: Gianni e Giovanni. Cosa avete pensato quando avete letto il testo e siete stati scelti per questi personaggi dalla chiave comica, ma con una funzione anche didascalica che in un gioco meta-teatrale vi ha reso spesso narratori?
L.C.: È stato divertente sin da subito. Essendo io e Stefano due tipologie di attori differenti è stata un’occasione per arricchirci a vicenda e confrontarci su due modi differenti di intendere e rendere la comicità; questo ha aiutato anche la funzione meta-teatrale dei personaggi permettendoci di interagire con una certa spontaneità e naturalezza anche con il pubblico.
S.G.: Già dalla prima lettura è stato evidente il potenziale comico delle due guardie e il pericolo che comportava. I due personaggi sono il motore del testo. Accompagnano il protagonista all’interno di un mondo regolato da leggi assurde. Ogni volta che il giovane pittore rimane incastrato all’interno di una via apparentemente senza uscita le due guardie spuntano fuori per condurlo in un nuovo luogo dove apprenderà qualcosa di nuovo o accetterà il fatto di non poter comprendere.
G.C.: La drammaturgia di Lorenzo Collalti è molto giocata sul passaggio e la traslazione di ciò che è immaginario in ciò che è reale e viceversa che, poi a ben guardare, è in certo senso essenza del teatro. Quanto è importante per voi come attori nel momento di studio e costruzione di un personaggio rimanere in contatto con la realtà?
L.C.: È fondamentale! Soprattutto in un gioco spesso così astratto e surreale, la concretezza è un elemento necessario all’attore per poter rimanere ancorato all’obiettivo, alla storia, al messaggio e a tutto ciò che si vuole portare al pubblico. Perché se un gioco non è concreto e reale non è un gioco.
S.G.: Col regista abbiamo cercato di ancorare in ogni istante le due guardie alla concretezza. Abbandonandosi liberamente ai meccanismi del comico, ai giochi ritmici o alle possibilità creative attorali derivanti da un mondo assurdo sarebbe stato facile travalicare la realtà: abbiamo cercato piuttosto di portare fino in fondo le motivazioni dei personaggi, di tutti gli abitanti di Arcadia, non solo delle due guardie, e questo ha dato spessore al gioco realtà-immaginazione del regista.
G.C.: Arriviamo all’ultima domanda, di rito: progetti per il futuro?
L. C.: La priorità in questo momento è quella di partire proprio da quest’ultimo progetto, facendo di tutto per poterlo portare avanti e fuori dal contesto accademico. E poi da qui continuare la collaborazione con questo gruppo. Le idee e la voglia di realizzarle ci sono tutte.
S.G.: Al momento ho iniziato le prove di uno spettacolo che andrà in scena a dicembre al Teatro India con la presenza di un gruppo di rifugiati provenienti dall’Africa, la regia è di Riccardo Vannuccini. Nel 2017 ci sarà la ripresa al Piccolo dello studio sui Sei personaggi in cerca d’autore diretto da Luca Ronconi. E poi ci sono i sogni e le attese…