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“Neither” – Riflessioni sull’eredità di Samuel Beckett a venticinque anni dalla sua scomparsa

Renata Savo

Venticinque anni fa ci lasciava Samuel Beckett, uno dei più straordinari autori del nostro tempo. La sua scrittura ha rivoluzionato completamente il rapporto tra performance e testo teatrale. Riflettiamo oggi sulle sue possibili eredità riportando l’esempio di un’opera “testamentaria” come “Neither – Né l’uno nell’altro”, in una messa in scena di Studio Azzurro del 2004.

«Signor Feldman, l’opera lirica non mi piace». Gli dissi «Non la biasimo!». Poi mi disse «Non mi piace che le mie parole vengano messe in musica», e io risposi «Sono completamente d’accordo. Infatti ho usato parole solo molto raramente. Ho scritto molti brani con la voce, ma senza parole». A quel punto mi guardò di nuovo e mi disse: «Ma cosa vuole?» E io, «Non ne ho idea». Mi chiese perché non usavo del materiale già esistente… Gli dissi che avevo letto tutto, che erano testi assai pregni, e che non avevano bisogno di musica. Gli dissi che stavo cercando la quintessenza, qualcosa che semplicemente si librasse».

Feldman gli mostrò allora lo spartito di un brano che aveva scritto su qualche battuta della sceneggiatura di Film. Mentre leggeva lo spartito con grande interesse, Beckett disse che nella sua vita c’era solo un tema, e lo canticchiò.

«Potrei trascriverlo?» [chiese Feldman]. (Beckett prende la carta da musica di Feldman e scrive il tema … Legge «Avanti e indietro, dall’inattingibile sé all’inattingibile non-sé») …Ci sarebbe bisogno di lavorarci un po’ su, no? Bene, se mi viene in mente qualcos’altro, glielo manderò».[1]

Ho riflettuto a lungo su quale fosse il senso ultimo dell’opera di Samuel Beckett, avendone dovuto meditare qualche anno fa nel periodo in cui seguivo un corso all’università sull’eredità – anzi, “sulle” eredità – che l’autore ci ha lasciato. Eredità che i posteri hanno accolto in modi diversi, e racchiuso dentro forme e linguaggi congeniali; anzi, proprio la versatilità si può annoverare tra quelle molteplici eredità possibili. Versatile, infatti, era il linguaggio – ma anche la “lingua” – adottato da Samuel Beckett, e “plurale” la sua vocazione di fronte all’utilizzo dei media (sebbene quasi sempre “assolutista”, invece, sia stata la sua visione registica, e poco flessibile la sua apertura a far parlare la stessa opera attraverso media differenti). Per questo, prima ancora di cercare il tema del mio approfondimento nel lavoro di una tra le potenziali realtà artistiche, eredi dirette o indirette di “qualcosa” che è appartenuto a questo formidabile autore, e prima ancora di gettare lo sguardo altrove, al di fuori dell’opera beckettiana, la mia ricerca si è svolta in senso opposto: partendo dall’interno dell’organismo vivo della sua opera, cercando a priori di capire se e dove l’autore in persona avesse annidato il senso ultimo della sua poetica. Senza sapere inizialmente dove sarei arrivata, non solo sono venuta a conoscenza di Neither – poco (anzi, molto poco) affrontata dagli studiosi di Samuel Beckett (almeno in lingua italiana), alla quale l’autore ha però testualmente consegnato il nòcciolo del suo pensiero – ma scopro anche con piacere che una trasposizione scenica molto particolare di quest’opera è stata realizzata nel 2004 dal gruppo di Studio Azzurro.

Seppure di poesia non sia lecito parlare, dal momento che vi si oppose lo stesso Beckett, il quale preferì definire la sua opera una short prose (ma, d’altra parte, qui ci si potrebbe anche chiedere se non sia illecito parlare di “libretto” o di “opera lirica”, non essendo previsti né personaggi, né intreccio, né scenografie), il testo si dispiega in dieci brevi enunciati, di cui riporto la seguente traduzione curata da Gabriele Frasca:

su e giù nell’ombra da quella interna all’esterna

dall’impenetrabile sé all’impenetrabile non-sé di modo che né l’uno né l’altro

come due rifugi illuminati le cui porte non appena raggiunte impercettibilmente si chiudano, non appena volte le spalle impercettibilmente di nuovo si schiudano

si accenni l’avanti e indietro e si volga le spalle

noncuranti della strada, compresi dell’uno o dell’altro barlume

unico suono passi inascoltati

finché finalmente arrestarsi una volta per tutte, disattenti una volta per tutte all’uno e all’altro

allora nessun suono

allora impercettibilmente indissolvendosi la luce su tale inosservato né l’uno né l’altro

l’inesprimibile meta[2]

 

Neither potrebbe definirsi un’opera “testamentaria”, nata espressamente, cioè, per volontà di Morton Feldman – che gli aveva chiesto di consegnare la “quintessenza” del suo pensiero – come tesoriera di un messaggio destinato a essere consegnato, ereditato, ma anche studiato, riformulato, soprattutto alla luce della sua essenzialità, di quegli spazi lasciati vuoti tra le righe che si è tentati a riempire con l’immaginazione.

Al suo interno prende forma una «sorta di suprema astrazione sul tema dello stare al mondo»,[3] un argomento ampio, che racchiude in sé gli altri temi: dalla solitudine, alla vecchiaia, alla malattia. Stare al mondo, nelle opere di Samuel Beckett, significa vivere una condizione oscillante tra l’essere e il non essere, tra la vita e la morte, tra l’essere percepiti e il non essere percepiti (Beckett ha trasferito nei suoi lavori, più volte, la massima del filosofo irlandese Barkeley, “esse est percipi”), tra la noia e l’angoscia, tra due mondi contraddittori, dove uno rappresenta la negazione dell’altro. Un’esistenza rende impossibile l’altra.

Questo “stare al mondo” potrebbe essere trasferito anche sul piano dell’essenza del medium teatrale. Perché se è vero che il teatro è uno specchio del mondo, esso ne racchiude anche il nòcciolo contraddittorio; si veda pure, allora, in questo moto, la scrittura stessa di Samuel Beckett, oscura e paradossale; l’implicita allusione a spazi che entrano ed escono dalla pagina e dalla scena visibile; il moto di un fascio di luce in contrapposizione alla fissità dei personaggi; l’andare e venire delle tre signore di Come and go; il movimento oscillatorio del dondolo, elemento quasi ossessivo nell’immaginario scenico beckettiano; la struttura circolare di alcune pièce, che rivela l’insensatezza e la miseria umane di fronte al tentativo goffo di ripetere gli stessi gesti, gli stessi copioni, mentre i personaggi si affannano a compiere azioni che li riconducono sempre al punto di partenza.  E, ancora, si pensi alla figura dell’antitesi, con successiva ripresa di argomenti la cui validità si era prima negata, di per sé moto oscillatorio tra due affermazioni che non possono convivere l’una con l’altra, dove emerge tutta l’inconsequenzialità, la mancanza di sviluppo logico, della conversazione quotidiana, portata da Beckett a livelli di verità che non sono mai stati toccati neppure dallo stesso realismo storico.

Ebbene, Neither si compone di dieci enunciati: che cosa significava tutta quest’essenzialità?

Significava che Beckett, da un certo momento in poi – a partire dalla stesura di Krapp’s Last Tape (1957) – lavorando in modo da assecondare sempre più il contenuto dell’opera alla forma, al “modo” in cui dire piuttosto che al “dire” in sé, era giunto a un punto di non ritorno, trovando in un pugno di righe, forse, le parole più adatte a esprimere il “silenzio”: il “niente” sostanza e finalità dell’esistenza umana.

Il percorso intrapreso da Beckett alla ricerca di un’essenzialità, di una riduzione ai minimi termini del medium teatrale si collega in parte alle trasformazioni che investirono il mondo occidentale durante il dopoguerra, dopo il secondo conflitto «mondiale in quanto mediale»;[4]  mutamenti che Beckett fu in grado di ascoltare in anticipo sui tempi, e che in un certo senso hanno costituito il punto di partenza per riposizionare la sua funzione autoriale e quella dello spettatore, secondo metodologie che recuperano, riadattandole ai propri fini, le tecniche in atto nelle culture di tipo orale, seguendo una tesi sostenuta da Marshall McLuhan circa la voce che risuona nei media elettrici.[5] A proposito di questa riconfigurazione sensoriale, non potrà passare inosservato come tracce di questa nuova modalità di fare teatro, in cui il dispositivo elettronico, come in Krapp’s Last Tape, diventa estensione di un territorio (nella fattispecie, quello “acustico”), sono ravvisabili anche nel lavoro di Studio Azzurro, dove il dispositivo elettronico/digitale fornisce allo spettacolo teatrale un’estensione del territorio del “visibile”.[6] Anche volgendo lo sguardo ad alcune esperienze trascorse del gruppo, quando questo era affiancato da Giorgio Barberio Corsetti – come in Prologo a diario segreto contraffatto (1985) e La camera astratta (1987) – si può dire, per usare le parole di Valentina Valentini, che «il dato rivoluzionario che indicavano era il rovesciamento di un paradigma: le tecnologie audio-visuali elettroniche non riconducono alla riproducibilità, quanto enfatizzano l’evenemenzialità, il tratto specifico dello spettacolo teatrale».[7]

Nella stessa direzione, verso l’amplificazione delle caratteristiche del mezzo, si muove la scrittura di Samuel Beckett. Indifferentemente dal medium attraverso cui sceglie di comunicare – teatro, radio, film, televisione – la posizione da lui adottata rimane quella di una progressiva “scarnificazione” fino a ridurre il medium ai minimi termini; conseguenza diretta di questa riduzione è che il testo scritto non può esaurirsi sulla pagina, ma ha bisogno di essere performato, di realizzarsi nella sua concretezza, visivamente o acusticamente (si pensi, ad esempio, a Breath).

La scarnificazione del linguaggio verbale, il procedimento attuato, appunto, su una short prose come Neither, non fa quindi eccezione in quanto modalità compositiva se si nota, ad esempio, che persino entro i confini della pagina, l’ultimo scritto che Beckett ci ha lasciato – composto all’età di ottantatré anni – è un testo meta-discorsivo e allo stesso tempo musicale nella sua esecuzione come What is the word.

Così, se a partire da Krapp’s Last Tape Beckett si accorge che il fatto teatrale può fare a meno del dialogo, sostituito dalla voce del protagonista registrata da lui trent’anni prima (optando in tal senso per un espediente anacronistico) – una soluzione che avrà fortuna negli anni a venire e che troverà la sua espressione più compiuta nel mezzo radiofonico – con Giorni felici scopre un’ulteriore possibilità drammaturgica nella sottrazione di un altro elemento costitutivo dello medium teatrale: il movimento.[8] Alla fine di questo processo, del fatto teatrale resterà scoperta soltanto la sua radice più autentica, quella che rinvia al suo significato etimologico:

La parola teatro viene dal greco θεάομαι, che vuol dire guardare, osservare: lo spettatore è posto davanti a qualcosa da vedere, prima ancora che ascoltare. In questo senso possiamo dire, un po’ paradossalmente, che […] il teatro di Beckett, per molti versi così radicale nell’eliminare ciò che tradizionalmente siamo abituati a pensare come essenziale della teatralità, si realizza sulla scena proprio a partire da ciò che in origine definiva la teatralità stessa. Già nei primi lavori c’è il ricorso a immagini che se ne infischiano del realismo per visualizzare […] qual è la situazione psicologica o esistenziale dei personaggi.[9]

La fase estrema di questo processo di scarnificazione (e allo stesso tempo di astrazione) del medium teatrale scivola sugli schermi televisivi dove, a partire da Di’ Joe (1965), comincia «l’inarrestabile marcia d’avvicinamento all’esaurimento»[10] fino a quell’irriducibile “follia televisiva”, quel “dannato videogame”,[11] rappresentato da Quad: una performance basata su funzioni matematiche che, per quanto profondamente concettuale, è ispirata alla situazione-tipo dell’Inferno dantesco ( i performer cominciano l’azione muovendosi verso sinistra, come i dannati descritti da Dante), in cui le figure sono costrette in un’area circoscritta a compiere le stesse azioni per l’eternità. Su un quadrilatero, secondo un ordine preciso, compiono infatti il loro tragitto quattro figure, con l’unico obiettivo di evitare il centro:

Ciascuna figura, sortita dall’oscurità, entra nella zona fievolmente illuminata, compie il proprio tragitto minuziosamente programmato, cominciando il movimento sempre verso sinistra […], evita il centro e rientra nell’oscurità. Così all’infinito, forse per l’eternità. […] Il solo modo per interrompere questa serie infinita, è la collisione delle figure nel punto E: una collisione che non avverrà.[12]

Il modo di “visualizzare” la parola, in Beckett, ha davvero qualcosa di infernale, di diabolico, anzi, per essere più precisi ha qualcosa del “teatro della crudeltà” teorizzato da Antonin Artaud. Artaud che parla, come ricorda Jacques Derrida, di una «materializzazione visuale e plastica della parola» e di «servirsi della parola in un senso concreto e spaziale», di «manipolarla come un oggetto solido e che smuove le cose», legando i fili di un discorso che, come suggerisce Antonio Iannotta in Lo sguardo sottratto, Samuel Beckett e i media, «sembra ritagliato ad hoc per il teatro beckettiano».[13] Soprattutto, e ciò vale ancora di più per l’attenzione alla multi-sensorialità e all’interazione con lo spettatore da parte di Studio Azzurro (si vedano i cosiddetti “ambienti sensibili”): «nel teatro della crudeltà lo spettatore è al centro, mentre lo spettacolo lo circonda», situazione che si ritrova compiuta sulla scena di Non io, dove l’ignoto “auditore” è portato a compiere un gesto eloquente, si copre le orecchie con le mani per sottrarsi al tormento procurato dal flusso vocale di Bocca.[14]

Un ulteriore punto di contatto con il gruppo milanese, quindi, è dato proprio dalla funzione nuova rivestita dallo spettatore, dovuta alla particolarità del medium, che Iannotta definisce arcimedia: quello a cui Beckett pensa è, infatti, per dirla con le parole di Iannotta, uno «spettatore mediale»: «essere audiotattile dotato di sguardo aptico, in grado cioè di riunire i sensi della vista e del tatto, sinestesicamente»;[15] in altre parole, il lettore al quale Beckett, implicitamente, chiede di performare le sue opere, esige «un coinvolgimento fisico» che lo smuova «dalla semplice e noiosa, ancorché rassicurante, posizione di lettore, per schizzarlo in un vivo ambiente audiotattile, estremamente coinvolgente».[16] Da un certo punto di vista, anche Studio Azzurro ha reagito ai cambiamenti sociali e mediatici attraverso un riposizionamento dello spettatore nell’opera, prevedendo la sua partecipazione attiva, indispensabile alla compiutezza del lavoro stesso. Come ha affermato Paolo Rosa in una conversazione con Valentina Valentini:

L’agire comporta un coinvolgimento diretto, porta lo spettatore ad intervenire, rompendo la distanza a volte rassicurante dello sguardo. In un’epoca poi lo spettatore è sempre deresponsabilizzato nel suo assistere allo spettacolo del mondo, quasi anestetizzato di fronte al caleidoscopio mediatico, l’invitarlo a compiere anche un gesto molto semplice ha un forte valore simbolico.[17]

Per alcuni aspetti, si può addirittura affermare che il lavoro di gruppi artistici come Studio Azzurro, composti da personalità diversificate nelle loro competenze che, integrate nell’opera, travalicano i confini dei rispettivi ambiti facendo assumere al lavoro una forma nuova – basata su convenzioni particolari che esprimono al massimo grado tale forma, e in cui risulta accentuato il carattere evenemenziale del fatto teatrale –  ricorda l’arcimedia di cui parla Iannotta a proposito delle opere di Beckett, ma rimarca anche la curiosità dello stesso autore irlandese nell’esplorare le potenzialità drammaturgiche di media diversi, veicolati dalle tecnologie si stanno diffondendo in quegli anni. Stando, infatti, alle parole di Paolo Rosa:

Il campo d’interesse che si manifesta, non è più quello visivo, né è audiovisivo, ma un territorio nuovo, ancora indefinibile, dove si mescolano discipline e vengono instituiti nuovi formati, integrati dai linguaggi delle tecnologie.[18]

Così, dalla “drammaturgia della doppia scena” sostenuta nelle opere nate dalla collaborazione con Giorgio Barberio Corsetti – in cui ai corpi reali e alla scena hic et nunc si sovrapponevano i simulacri di quella virtuale, immortalati nel medium audiovisivo, secondo una “compresenza dell’assenza” che ricorda Krapp’s Last Tape – si passa attraverso «la progressiva sparizione di quell’elemento di mediazione tra narrazione e persone che corrisponde alla presenza dell’attore»[19] e di conseguenza, attraverso la «necessità inversa di spostare, nel ruolo protagonista, quello dello spettatore»;[20] per poi, infine, come ricorda Paolo Rosa, arrivare «con Delfi [1990] a un luogo dove la scena è negata e anche il protagonista è negato, è immerso nel buio, nella non visibilità, ed è percepibile soltanto attraverso gli occhi della tecnologia. Quindi un attore che sparisce dalla scena pur essendo fisicamente presente. Negli ultimi lavori l’attore svanisce del tutto, non esiste più come in Neither. E’ un palcoscenico senza protagonista, senza fondali, senza oggetti, il niente, appunto, voluto da Beckett»:[21]

[…] forse è questo che sento, che c’è un fuori e un dentro e io nel mezzo, forse sono io questo, la cosa che divide il mondo in due, da una parte il difuori, dall’altra il didentro, può essere sottile come una lama, io non sono né da una parte né dall’altra, sono in mezzo, sono come un muro divisorio, ho due facce non ho spessore, forse è questo che sento, io mi sento vibrare, io sono il timpano, da una parte c’è il cranio, dall’altra il mondo, io non sono né l’uno né l’altro.[22]

Dal 1953, anno in cui Samuel Beckett scriveva L’innominabile – terzo capitolo della sua celebre trilogia di romanzi, dopo Molloy (1951) e Malone muore (1951) – al 1976, anno in cui buttava su carta Neither, sono trascorsi più di vent’anni. Eppure, leggendo le righe trascritte sopra, sembra di essere tornati al punto di partenza. E’ perché davvero in quelle poche righe sono concentrati passato, presente e futuro della scrittura di Samuel Beckett; si pensi, per esempio, al “futuro” Compagnia, composto tra il 1977 e il 1979, dove figura quel «I passi nel silenzio unico suono»,[23] così vicino all’«unico suono passi inascoltati» di Neither. In Neither c’è tutto, infatti, eppure non c’è niente: un «unspeakable home” che tutto comprende e accoglie».[24] Quest’idea ha rappresentato il punto di partenza della sfida lanciata da Paolo Rosa nel 2004, quando ha realizzato la sua personale visione dell’opera sulla base delle sensazioni emanate dal testo e dalla musica di Morton Feldman. Come si legge tra le note di regia dello spettacolo:[25]

Sentirsi in mezzo tra la musica di Feldman […] e il testo di Beckett […] significa sentirsi schiacciati da due entità indefinite e titaniche che comprendono il tutto e il nulla contemporaneamente, significa essere frastornati tra l’esplosione continua di suggestioni e l’implosione costante nel vuoto del dubbio.[26]

Sin dai primi istanti dello spettacolo, l’ambiente ricreato graficamente da Studio Azzurro è amorfo, «liquido» come le figure fuse dei dipinti di Salvador Dalì. Sembra l’immagine di un mondo sospeso tra due condizioni, tra l’essere tridimensionale e la bidimensionalità: come si nota dalla proiezione, a terra, di un topo che percorre trasversalmente il pavimento per raggiungere la fioca luce che entra da una porta, in un punto decentrato del palcoscenico; una porta anch’essa proiettata, ma dall’illusiva tridimensionalità. Il topo, insieme ad altre figure richiamate nello spettacolo, rappresenta un ricordo lontanissimo di una scena di Endgame. La luce, l’ombra, non potevano che svolgere un ruolo assolutamente privilegiato in questo lavoro; sono, infatti, l’attenzione verso l’illuminotecnica e la sapienza con cui l’immagine viene costruita che fanno incontrare Samuel Beckett e Studio Azzurro a metà strada. Si legga a proposito di questo aspetto della messa in scena beckettiana cosa scrive Iannotta:

L’autore dublinese tiene in enorme considerazione il lato tecnico della messa in scena. E cos’è tecnicamente più pregnante in un teatro che fa dell’immagine il suo specifico, se non la luce? Da qui sortisce il grande interesse, e la grande importanza, che Samuel Beckett conferisce all’illuminotecnica. […] Beckett comincia a porsi interrogativi in merito alla tecnologia teatrale e ai suoi intrinseci limiti, primo fra tutti «quale tipo di illuminazione fosse realizzabile e quale no». […] Gli scarti e i passaggi dalla luce alla tenebra caratterizzano molte opere teatrali e sono l’esempio evidente dell’impegno di Beckett nei confronti dell’illuminotecnica.[27]

Si è già accennato all’importanza che l’illuminotecnica ha assunto in spettacoli come Not I o Play, ma anche Breath, Come and Go… Soprattutto, però, Studio Azzurro ha evidenziato in questo lavoro come il buio, ancor più che la luce, assurga a ruolo di vero protagonista in questa scrittura. Vale la pena riportare qui un pezzo della dichiarazione di Paolo Rosa rilasciata a Valentina Valentini, perché descrive sapientemente il suo incontro con la parola dell’autore irlandese – e con Neither – concentrando il discorso non solo sull’importanza attribuita alla dialettica tra luce e ombra, ma anche, appunto, al silenzio, e in particolare, al silenzio che riempie gli spazi vuoti di un’opera nata paradossalmente proprio come “musicale”:

Beckett è importante perché mi propone sempre il suo silenzio. E’ vero che scrive parole, ma la sua vera scrittura è la parte di vuoto silenzioso che sta tra le parole. E’ come se usasse la scrittura non per rivelare, ma viceversa per riportare una scena, un accadimento nel buio, e riporli all’invisibile. Restituisce al racconto il suo mistero, la profondità in cui si forma. E’ una dinamica di straordinario interesse in quest’epoca dominata e invasa da racconti di superficie e banalità: Beckett ci nutre di questi vuoti. Quando abbiamo messo in scena Neither al teatro dell’opera di Stoccarda, il suo testo, se letto e interpretato nel modo convenzionale, per noi sarebbe stato praticamente una pagina bianca, è teoricamente irrappresentabile. Non c’è nessuna indicazione scenica, non c’è soggetto, non sai con chi sta parlando, non sai nemmeno bene cosa stia dicendo. Se però si riesce ad avvicinare il testo in un altro modo, subito emergono i vuoti, i silenzi come elementi espressivi e il vero testo si genera nelle oscillazioni tra il dentro e il fuori, tra luce e ombra. Non sono parole letterarie, ma vuoti e silenzi: materia organica che Beckett è riuscito a collocare tra le parole. […] Paradossalmente per chi, come noi, usa la luce come elemento della sua scrittura creativa è il buio spesso a essere protagonista. Un po’ come il ricorrere del silenzio nelle parole di Beckett.[28]

Un’altra dialettica interessante messa in risalto dal lavoro di Studio Azzurro su Neither riguarda il rapporto tra scena e organico orchestrale: un’orchestra composta da circa cento musicisti e un soprano viene fatta sparire nella buca orchestrale per lasciare il palcoscenico vuoto, e anche il soprano non appare già in scena, ma «affiora lentamente dalla buca dell’orchestra».[29]

Se la scena, allora, è vuota: cosa appare?

Appaiono lampi di luce, video proiettati sul sipario elettronico del teatro e su una pedana inclinata sul palcoscenico, fasci luminosi di tonalità contrastanti; la prima immagine che si presenta allo spettatore è una porta che si apre lasciando entrare un bagliore circondato dal buio, generando un contrasto visivo molto forte, proprio dell’estetica visuale beckettiana. L’idea di base di questo lavoro, infatti, consiste nel riprodurre due situazioni: la presentazione e la negazione di un’immagine, l’«indicibile dimora» in cui Paolo Rosa fonde insieme gli elementi essenziali, ricorrenti, delle opere beckettiane e la visionarietà tipica di Studio Azzurro; e contemporaneamente, a questo livello di “astrazione”, sovrappone una sua personale e concreta interpretazione del testo, in cui prova a elaborare l’ipotesi di un “intreccio” che vede protagonista l’Uomo, in senso universale:

Neither sembra parlare di un percorso di conoscenza che vede come protagonista l’uomo in cerca di una risposta agli enigmi della vita. Il protagonista si spinge verso una nuova meta nel profondo del silenzio della propria mente e, disturbato solo dal rumore dei suoi passi stanchi, trova rifugio in una “dimora indicibile” che sembra essere paradossalmente l’annientamento del sé.[30]

Da non sottovalutare, inoltre, se si vuole perseguire la ricerca dell’eredità di Samuel Beckett nella trasposizione mediale di Studio Azzurro, la capacità del gruppo milanese di aver reso pienamente l’idea di una camera mentale (ma d’altra parte, Studio Azzurro aveva già ricreato l’ “interno” di una mente in La camera astratta), un’idea su cui lo stesso Beckett aveva più volte lavorato per i suoi radiodrammi (come in Embers); lo spazio mentale riprodotto da Studio Azzurro è una sorta di limbo onirico in cui non ci sono corpi, ma solo ombre, tracce lasciate da scarpe senza piedi che li calzino, un letto sfatto senza un corpo che vi abbia dormito, un dondolo vuoto, anche se in movimento. Unico elemento concretamente presente in scena, il dondolo incarna già di per sé, come immagine, il tema della solitudine, della meditazione intimista, della rievocazione nostalgica del passato, oltre a essere, si è detto, un oggetto ricorrente in molti lavori beckettiani (Molloy, Murphy, Rockaby, Film); qui il tema della solitudine si radicalizza, e sembra, piuttosto, di leggere in queste presenze delle “assenze”: l’assenza di un Personaggio, di un Protagonista, di un Soggetto. Martin Esslin, in uno scambio di opinioni con T. W. Adorno, Walter Boelich e Ernst Fischer, avvenuto in televisione dopo la visione Play e Film, ha dichiarato che Beckett gli aveva confidato di essere convinto di conservare dei ricordi del proprio stato prenatale, di quando si trovava ancora nel grembo materno; in un certo senso, quindi, il limbo onirico, lo spazio indifferenziato realizzato da Studio Azzurro, si rivela coerente con l’assunto che «questa ricerca di sé», su cui Neither sembra focalizzarsi, «non è altro che la ricerca di quel sentimento indifferenziato dello stato prenatale».[31]

Si può dire, quindi, che in sette minuti di spettacolo, Paolo Rosa sia riuscito a dare voce a una visione del teatro, e del mondo, quella di Samuel Beckett, che ha influenzato gran parte del modo di fare e vedere il teatro dalla seconda metà del Novecento a oggi. Una poetica che ha eletto il “nulla” a soggetto del discorso, il “silenzio” a mezzo espressivo e, attraverso un uso indifferenziato della lingua, il “né l’uno né l’altro” a paradigma compositivo. Non a caso, quando Beckett incominciò a usare indifferentemente l’inglese e il francese, scrisse: «si protesterà che questa roba non è scritta in inglese. Non è affatto scritta. Non è fatta per essere letta, o almeno non solo per essere letta. Bisogna guardarla e ascoltarla».[32]

 

 

 Note:

 

[1] James Knowlson, Una vita, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2001, (ed. or., Damned to Fame. The Life of Samuel Beckett, 1996), p. 743.

[2] Samuel Beckett, Gabriele Frasca (trad. a cura di), Né l’uno né l’altro, in In nessun modo ancora, Torino, Einaudi, 2008, p. 91.

[3] http://www.annamonteverdi.it/digital/rimediando-il-teatro-di-beckett-con-il-video/ Fonte consultata il 25-04-2014.

[4] «La guerra ha la sua cifra nella mondializzazione del conflitto. Vale a dire che se la prima guerra mondiale, come rinviene Stephen Kern, è stata opportunatamente definita da Gertrude Stein “guerra cubista”, conseguenza della nuova percezione dello spazio e del tempo sortita dalla pervasiva diffusione dell’elettricità e della telefonia, il secondo conflitto è, come efficacemente scrive Gabriele Frasca, mondiale in quanto mediale». Antonio Iannotta, Lo sguardo sottratto, Samuel Beckett e i media, Napoli, Liguori, 2006, p. 37.

[5] M., E. McLuhan, La legge dei media. La nuova scienza, Roma, Edizioni Lavoro, 1994.

[6] Noemi Pittaluga e Valentini Valentini (a cura di), Studio Azzurro Teatro, Roma, Editore Contrasto Due, 2012, p. 7.

[7] Ibidem, p. 8.

[8]«Winnie, la protagonista, è interrata fin sopra alla vita, dentro un monticello che si eleva al centro di una distesa di erba inaridita, e parla in continuazione, interrompendosi soltanto per compiere i pochi gesti che la posizione le consente». Cfr. Samuel Beckett, Paolo Bertinetti (a cura di), Teatro, Einaudi, 2005, p. XIX.

[9] Ibidem, p. XX.

[10] Antonio Iannotta, Op. cit., p. 179.

[11] Ibidem, pp. 197-198.

[12] Ibidem, pp. 198-200.

[13] Ibidem, p. 105.

[14] Ivi

[15] Ibidem, p. 3.

[16] Ibidem, p. 4.

[17] Valentina Valentini, Paolo Rosa, La vocazione plurale della regia. Conversazione con Paolo Rosa, in “Biblioteca teatrale”, n. 91-92, luglio-dicembre 2009

[18] N. Pittaluga, V. Valentini, Op. cit., p. 24.

[19] Ibidem, p. 27.

[20] Ivi

[21] Ivi

[22] A. Iannotta, Op. cit., p. 64.

[23] Samuel Beckett, Compagnia, in S. Beckett, G. Frasca, Op. cit., p. 7.

[24]http://www.studioazzurro.com/index.php?com_works=&view=detail&work_id=55&option=com_works&Itemid=22&lang=en

[25] Neither è andato in scena nel 2004 all’Opernhaus di Stoccarda; progetto video e drammaturgia multimediale: Studio Azzurro; Direttore d’orchestra: Roland Kluttig; Soprano: Petra Hoffmann. Mi è stato possibile reperire il video dello spettacolo, della durata di circa 8 minuti, sulla mediateca on line del DASS, Università ‘La Sapienza’. Lo spettacolo andato in scena a Stoccarda prevedeva anche una Prologo di venti minuti circa, un in cui un critico letterario e un musicologo ricordavano vita, produzione e poetiche di Beckett e Feldman.

[26] N. Pittaluga, V. Valentini, Op. cit, p. 223.

[27] A. Iannotta, Op. cit., p. 94.

[28] V. Valentini, P. Rosa, Art. cit.

[29]N. Pittaluga, V. Valentini, Op. cit., p. 231.

[30]Ibidem, p. 223.

[31]Theodor W. Adorno, Gabriele Grasca (a cura di), Essere ottimisti è da criminali. Una conversazione televisiva su Beckett, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, p. 42.

[32] A. Iannotta, Op. cit., p. 125.



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