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Morire è un po’ come sognare. “Cold Blood” di Jaco Van Dormael e Michèle Anne De Mey

Valentina Crosetto

I creatori del fortunato Kiss & Cry, il regista cinematografico Jaco van Dormael e la coreografa Michèle Anne De Mey, sono stati a TorinoDanza con un nuovo spettacolo in bilico tra cinema, nanodanza e teatro di figura: effimero e ipnotico, popolato di dita danzanti e modellini di cartapesta

«La morte è un po’ fredda e vi ritrovate a pensare che avreste dovuto portarvi un maglione». (Jaco Van Dormael)

Una mano gira una manovella. La tela del cinematografo cala sul palcoscenico. Poi il buio, una voce raccomanda di abbandonarsi docilmente al sogno e lo spettacolo del mondo è finalmente proiettato sullo schermo. Possiamo immaginarcelo così il battesimo pubblico del cinématographe Lumière la sera del 28 dicembre 1895. Fra i trentatré presenti al Salon Indien, in pochi colgono l’inganno che dà apparenza di realtà a tutto quel che si svolge davanti alla cinepresa; e uno solo, stimolato dalla seduta, decide di strappare al teatro tutte le truccherie per travasarle nelle immagini e dar fondo in una ventina d’anni alle risorse di una fantasia incline al grottesco e al meraviglioso: Georges Méliès.

Ma l’aereo che precipita in una foresta brumosa schiantandosi al suolo sotto i nostri occhi non esce dal cilindro dell’illusionista di mestiere che spedì il primo razzo nello spazio per conficcarlo nell’occhio di una luna arcigna. Proviene da una creazione particolarissima che all’artigianato ha unito la tecnologia, alle meraviglie dei laboratori di posa del cinema muto le tecniche più moderne delle inquadrature, delle messe a fuoco, dei giochi di luce e delle telecamere semi-motorizzate su un sistema di carrelli che danno vita a una favola collettiva di straordinario fascino. Il titolo è Cold Blood, gli ideatori gli stessi che un anno fa inaugurarono il TorinoDanza Festival con quel Kiss & Cry (2011) che vanta ancora oggi innumerevoli repliche in tutto il mondo (e proprio di recente è passato anche dal VIE Festival emiliano): lui è Jaco Van Dormael, il regista belga di Toto le héros e Le Tout Nouveau Testament; lei, la danzatrice Michèle Anne De Mey, fondatrice con Anne Teresa De Keersmaeker della compagnia Rosas e direttrice di Charleroi Danses, centro coreografico della Comunità francese del Belgio. Insieme, marito e moglie sperimentano, a margine dei rispettivi impegni, una fabbrica dei sogni più vera della realtà, che dischiude paesaggi lillipuziani ricreati con grande sofisticatezza, dove gli annaffiatoi scatenano acquazzoni e le dita delle mani si esibiscono in sensuali evoluzioni al palo. Hanno cominciato per caso, sul tavolo della cucina, facendo muovere indice e medio come in una danza in miniatura. Quelle dita si trasformavano in corpi nudi mobilissimi, le nocche in volti di danzatori in tensione, che si sfiorano, si inseguono, si accarezzano, giocano con la propria ombra e con minuscoli oggetti su sfondi di case di bambola o grattacieli di cartapesta.

Fin qui niente di speciale: quale bambino non ha mai giocato alle ombre cinesi con le mani, intrecciando le dita in modo da ottenere le sagome più diverse e divertenti? Il punto è che in questo lavoro, che è prima di tutto bricolage di linguaggi in bilico fra cinema, nanodanza e teatro di figura, l’illusione viene smascherata in itinere, la finzione scenica svelata nel medesimo istante in cui genera la poesia del racconto. Perché sullo schermo, sopra al palcoscenico, assistiamo allo svolgersi della storia filmata, e contemporaneamente ne seguiamo il making of davanti alle quinte, dove la squadra di danzatori (Grégory Grosjean, Gabriella Iacono, Manuela Rastaldi), direttori di scena e operatori di ripresa lavorano instancabilmente nella semioscurità del set. Méliès dirigeva lo sguardo dello spettatore dove voleva per mantenere intatta la misteriosa carica di menzogna attrattiva di cui è fatto il cinema. Qui, invece, il pubblico si lascia sopraffare spontaneamente dai viaggi onirici di Van Dormael e De Mey; può farsi stupire da un numero di tip tap sui ditali o da una camminata nello spazio in guanti di lattice e al contempo non crederci affatto, perché lo scivolamento in questo gioco di matrioske tutte aperte è totalmente volontario. L’incanto resta però il medesimo, anche grazie alla voce calda e sottilmente ironica che traccia la storia di quelle dita (testi di Thomas Gunzig). Storie non più di amori sfortunati e attese interminabili sulla panchina di una stazione, ma di morti stupide e premature – da quella astronautica a quella erotica fino a quella meteorologica – che muovono al riso e alla commozione. Si muore sette volte e sette volte si rinasce, con nuove sembianze e in nuovi ambienti, come in un’eterna metamorfosi. Il gancetto di un reggiseno che ti soffoca dopo l’ennesimo passaggio davanti alle vetrine a luci rosse; la compressa da 60 mg che ingoi perché «vuoi vedere com’è dall’altra parte»; la tormenta di neve che ti assale mentre torni dalla spesa: le cause sono le più banali e disparate. Poi ti capita di vedere un film in bianco e nero e di notare che sono tutti morti – gli attori, il regista, il produttore – «eppure sembrano tutti così vivi». Così, in un fluire nostalgico di citazioni memorabili, assisti ai volteggi di Ginger Rogers e Fred Astaire, ai balletti acquatici di Esther Williams, al Boléro di Ravel nell’interpretazione di Jorge Dunn sul tavolo rosso coreografata da Maurice Béjart, al respiro del corpo di Michèle Anne in sottoveste che gravita a mezz’aria evocando Café Müller, al lancio di uno shuttle sulle note di Space Oddity. Capita anche di vederti solo al volante mentre l’autoradio trasmette Perfect Day di Lou Reed e, allora, non puoi fare a meno di pensare che questo sogno sarà davvero da ricordare.


Dettagli

  • Titolo originale: Cold Blood


Altro

  • Visto il: Domenica, 23 Ottobre 2016
  • Visto al: Fonderie Limone, Moncalieri (TO), TorinoDanza Festival

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