Il teatro della critica: il teatro delle soluzioni?
Quale futuro per la critica teatrale? Riflessioni a margine del convengo “Il teatro della critica” a cura di Piergiorgio Giacchè, svoltosi il 14 e il 15 novembre 2015 presso il centro culturale Il Funaro di Pistoia
La critica è anzitutto un atto politico. È la capacità di formulare un giudizio nella consapevolezza di poterlo esprimere liberamente. Elaborare un pensiero critico, secondo Kant, significa tenere in considerazione la società e lavorare per essa; lo ricordano Daniele Giglioli e Vittorio Giacopini, due fra gli ospiti al convegno “Il teatro della critica”, organizzato da Piergiorgio Giacchè con la collaborazione del centro culturale il Funaro di Pistoia e svoltosi il 14 e il 15 novembre all’interno della sala conferenze.
Da allora, poco più di un mese dopo, ho sentito il bisogno di sviluppare una riflessione, un pensiero critico, appunto, sul significato del convegno e sul senso che avrebbe potuto o dovuto avere rispetto alla situazione teatrale attuale. L’ho fatto tenendo in considerazione il report di Giulia Bravi e Lorenzo Donati uscito subito dopo la conferenza. Ho scritto dopo aver letto il pezzo, più recente, di Elisa Sirianni sulla sua rubrica in “fattiditeatro” e gli articoli usciti sul convegno “Turn Over – più spazio per crescere” di Napoli, nonché l’articolo di Elena Scolari su Pane&AcquaCulture a proposito del convegno di Milano al Palazzo Sormani.
Confrontando i vari resoconti e le riflessioni ne risulta che la critica non è in crisi solo per il calo d’interesse culturale nella comunità occidentale (cosa che ritengo vera in parte): soprattutto, la critica è statica. Per necessità si è adattata all’utilizzo di nuovi canali di comunicazione, ma è poco elastica nella struttura dei contenuti, smarrita dentro se stessa, privata di quel sentimento sincero che accompagnava i grandi critici di un tempo. Spesso, infatti, si parla di necessità nella creazione artistica, perché non si dovrebbe realizzare un’opera senza un reale bisogno interiore, ma anche il pezzo critico dovrebbe provenire dal sentimento e dalla necessità di porsi come un valore aggiunto, ossia per trovare e condividere una chiave di lettura sconosciuta anche all’autore dell’opera. Solo in questi termini il critico può riscoprirsi utile.
Alfonso Berardinelli per il suo intervento “La critica come teatro” ha letto alcune parti di una serie di testi noti, tra i quali Il misantropo di Molière. Il dialogo fra l’esordiente poeta Oronte e il critico misantropo Alceste traccia un quadro di molti artisti e molti critici coevi. Riporto alcune citazioni: «scrivere senza emozioni vere è un’azione funesta che annienta chi la compie» o «la mania di scrivere può degradare oggi anche dei valentuomini […] credetemi non vendetevi al pubblico». Non solo gli artisti, infatti, sono costretti a vendersi al pubblico per sopravvivere; più spesso lo fanno le strutture teatrali, e, appunto, la critica, la quale non si vende al pubblico ma all’artista, o ad alcune strutture, o enti, o al nome di un festival. Un grosso problema, quest’ultimo, che al convegno di “Il teatro della critica” è rimasto ai margini, ma vivo, pronto a liberarsi dietro alle parole dei vari relatori che si sono confrontati con i presenti per capire cosa ha portato alla decadenza del ruolo del critico nella società. Il giorno precedente l’intervento di Berardinelli, Daniele Giglioli ha focalizzato il suo discorso su “La critica come esempio” e, attraverso una sintesi dell’evoluzione del critico, ha puntualizzato quali sono, a suo parere, i due grossi punti di rottura che hanno generato la crisi della funzione critica: il teatro contemporaneo non ha bisogno di essere valutato, poiché il giudizio estetico è soggettivo, e il più delle volte i critici usano linguaggi non capiti dai lettori; l’arte contemporanea non deve essere nemmeno interpretata, dato che l’evoluzione del teatro, la videoarte e l’arte digitale, riflettono i cambiamenti del presente, ossia, velocità, sintesi dei temi attuali, ibridazione dei linguaggi. E io mi sento di aggiungere che la maggior parte della produzione artistica trova il proprio obiettivo in fase di lavoro, attraverso la sperimentazione.
Il principio con il quale nasce la critica è l’intento di incoraggiare e promuovere la libertà di pensiero e il senso estetico. Un atto giuridico che sta andando a sparire, fagocitato da una società che non sente più il bisogno dell’individualità e predilige l’omologazione, l’appartenenza a un gruppo.
«Con l’avvento dei social network siamo diventati tutti critici», sostiene Nicola Villa; tutti si precipitano a esprimere un giudizio sui post, e sugli articoli dei quali la maggior parte non è nemmeno letta, anche se condivisa. Oltretutto si deve puntualizzare che i social permettono il solo giudizio omologante del “like”, come se non ci fosse possibilità di contestare apertamente una notizia o un punto di vista. Anche i critici sono arrivati alla rete.
Ne ha parlato Lorenzo Donati, che ha intitolato il proprio intervento “Pesci nella rete”; lo scenario di Donati pone il nuovo critico come una figura ibrida, impossibilitato a vivere della propria scrittura, costretto a dividersi fra mille soluzioni lavorative per racimolare una paga dignitosa. Per accattivarsi la benevolenza delle strutture e gli enti, il critico della rete si rende schiavo del fenomeno social, dove il “like“ è l’unica legge. «Nella rivista online, non c’è critico che non cada nella tentazione di autopromuoversi, di alzare la temperatura della retorica mischiando in maniera pericolosa la funzione critica con la funzione auto-promozionale. […] i nostri articoli sono tutti imperdibili, da non perdere, da leggere immediatamente, acute riflessioni; gli artisti sono tutti straordinari, imperdibili, da non mancare, questi, però, sono toni da ufficio promozioni, non da critica», ha osservato Donati.
Trarre conclusioni dal convegno di Pistoia non è impresa facile, in quanto, purtroppo, vere soluzioni non ne sono venute fuori, come sembra succedere in tutti i convegni sulla critica che sono stati fatti in questi ultimi tempi. I problemi della critica sono diversi e molteplici, e ancora si sta cercando di capire a fondo i passaggi che hanno condotto alla disintegrazione del critico, così come si cerca di individuare la reale posizione del teatro oggi. Le soluzioni proposte sembrano essere molto simili: stringere una rete di collaborazione e dialogo tra critico/artista, artista/pubblico, critico/pubblico; cercare di evitare l’interpretazione e il giudizio e porsi come una lente che rivela certe sfumature di un’opera lasciate in ombra; e, ancora, il critico dovrebbe porsi come un suggeritore, proponendo all’artista nuove strade da percorrere. È triste a dirsi, ma quello che sembra trapelare da queste riflessioni è che non esista una vera soluzione per ridare un valore alla critica, in quanto tutto sembra essere contraddittorio: si può annullare il giudizio, se giudicare è un atto politico e un diritto democratico? Si può essere onesti e imparziali quando si scrive un pezzo su una compagnia supportata da un ente con il quale si collabora o si potrebbe collaborare? Purtroppo la condizione del critico di oggi non permette una libertà completa: mancano le possibilità di far tornare la critica un mestiere, almeno nell’immediato. Al convegno “Turn Over” di Napoli si è proposto di usare il sistema SEO per incrementare la visibilità degli articoli su Google, e se anche la visibilità potrebbe migliorare per alcuni (a discapito di altri), di che numeri potremmo parlare in termini di utenza, di lettori? La maggiore visibilità non renderebbe la paga degna delle ore sprecate sulla scrittura di un articolo, il quale richiede tempo di riflessione e informazione. Alla fine cosa resta? Grande preoccupazione, e il fumo sempre più acre e asfissiante delle sigarette accese nelle pause dei tanti convegni, dentro il quale anche le parole si perdono.