Il giardino che non c’è. Valter Malosti rilegge Čechov
In prima nazionale, inaugura la stagione del Teatro Stabile di Torino l’allestimento de Il giardino dei ciliegi di Valter Malosti ambientato in un interno gotico
Dei tanti simboli che costellano Il giardino dei ciliegi ce n’è uno, forse meno vistoso, che rispecchia la modernità del teatro di Anton Čechov: l’armadio di cent’anni. Dopo una lunga assenza da casa, trascorsa nell’“oltre confine” parigino, la nobile possidente Ljubov’ Andreevna lo ritrova dove lo aveva lasciato, nella stanza dei bambini della vecchia tenuta di campagna che gli sperperi suoi e del fratello Gaev hanno finito per mettere all’asta. Quell’armadio ha più o meno gli anni dell’opera cui appartiene: un testo fondamentale del Novecento, vaudeville tragico che, dopo oltre un secolo di allestimenti e di regie, riesce ancora a emozionare lo spettatore con i suoi personaggi inquieti, tormentati, oppressi dalla costante fatica di vivere. Čechov ci è stranamente familiare perché fa accadere i fatti più terribili come fossero eventi quotidiani, elimina ogni distinzione tra alto e basso, tra tragico e farsesco, fissando il suo sguardo imparziale sui mediocri, gli abulici, gli sbadati, che annegano nell’indefinito facendosi riflesso della nostra epoca incoerente. Nella sonnolenta provincia russa di fine Ottocento, dove tutto impigrisce e naufraga, non c’è posto per gli eroi e le grandi imprese: il destino non ha permesso a questi uomini di diventare ciò che sognavano e lo squallido corso dei giorni li ha inchiodati a un punto morto, facendoli girare a vuoto, incapaci di dare un senso alla propria esistenza incolore. Il loro fallimento maggiore è condensato tutto nel giardino del titolo, venduto perché non abbastanza redditizio per far posto a tanti lotti per case di villeggiatura. Il frutteto è quanto di più caro hanno al mondo – il candore dell’infanzia racchiuso nella fragile bellezza del fiore di ciliegio – eppure Ljubov e Gaev non alzano un dito per salvarlo. Sono troppo concentrati, insieme alla loro corte di buffoni e “buoni a nulla”, a infliggersi inutili ferite verbali anche solo per vederlo. E infatti in scena non lo vediamo, nemmeno stilizzato in qualche sembianza che ricordi le più famose rivisitazioni del passato: nessuna schiera di alberi veri (Visconti), nessuna vela bianca cosparsa di foglie che incombe sulle figure affannate (Strehler), nessun accumulo di tappeti e sporadici oggetti (Brook), nessuna selva di aste sormontate da piccole eliche da vento (Nekrosius). Il giardino non c’è, è scomparso ancora prima di cadere sotto gli ingrati colpi di scure del progresso. Ne serba memoria solo il vecchio domestico Firs, guardiano della casa in rovina e unico depositario di un tempo remoto che si vuole annullare.
Valter Malosti, nel nuovo allestimento che inaugura la stagione del Teatro Stabile di Torino (in cartellone fino al 30 ottobre al Teatro Carignano), sceglie di interiorizzarne la presenza chiudendo la vicenda in un interno gotico, diroccato, senza stanze, disseminato di pietre tombali e già invaso da una fitta coltre erbosa (scene di Gregorio Zurla). Le allusioni agli scempi ambientali che l’attualissimo Čechov associava a quegli alberi abbattuti di finzione drammatica sembrano già alle spalle, la decadenza già avvenuta. La vecchia aristocrazia russa ha ceduto il passo alla servitù della gleba affrancata e una testa monumentale di Lenin occhieggia dal fondo alludendo all’implosione della Russia degli zar e ai bagni di sangue della Rivoluzione d’Ottobre. Si tratta ancora di un focolaio sotterraneo, di un tempo di mezzo tra vecchio e nuovo mondo, non sappiamo afferrare distintamente cosa se ne va e cosa resta. Tuttavia, siamo avvertiti: nei vizi e negli sprechi di denaro dei due fratelli (Elena Bucci e Natalino Balasso), nel riscatto sociale del mercante Lopachin (Fausto Russo Alesi) che comprerà la proprietà diventando, da servo, padrone, nei vagheggiamenti rivoluzionari dello studente Trofimov (Giovanni Anzaldo), nella malaugurata apparizione del mendicante (Alessandro Conti), il futuro è già scritto. Peccato che, a forza di guardarsi indietro o in avanti, nessuna delle creature di Čechov sia in grado di vivere il presente, specialmente i giovani. La nuova generazione sogna un’età lontana, in cui la vita sarà più armoniosa, ma intanto non fa nulla per estinguere la noia, per raggiungere la felicità: la piccola Anja (Federica Dordei) ama Trofimov, che però ha sposato la causa di una “verità superiore” intellettuale; sua sorella Varja (Roberta Lanave) sarebbe anche disposta ad accantonare la vocazione monacale per sposare Lopachin e salvare la famiglia; la cameriera Dunjaša (Camilla Nigro) freme invano per l’altezzoso lacchè Jaša (Jacopo Squizzato) e trova che il contabile Epichodov (Gaetano Colella) «parli bene e con sentimento, ma sia incomprensibile».
Il gran lavoro della regia di Malosti sta proprio qui, nella cifra espressiva dei dialoghi accuratamente tradotti, nella generosa prova degli attori che ricavano dalle pieghe delle battute un rigoglio di vibrazioni psicologiche inconsuete. Le cantilene, i profluvi di parole, il balbettio di questa gente in sfacelo, che vira più volte verso il soliloquio, non facilitano la comprensione, anzi, provocano stonature simili a quelle di un’orchestra bizzarra (magari un’orchestra klezmer, come al gran ballo del terzo atto) in cui ogni strumento suoni per proprio conto. Sulla mestizia che costituisce il basso continuo della partitura si elevano poi gli spunti burleschi, le scenette da circo, i nonsense alla Maeterlinck, tipici delle commedie di Čechov: Epichodov è lo sciocco elegantone cui capitano tutte le sciagure del mondo e che “amleticamente” non sa se «vivere o spararsi un colpo in testa»; il debitore Pisčik (Roberto Abbiati) è il fenomeno da baraccone, l’uomo-cavallo ipercinetico e dallo stomaco di ferro, fiducioso che ogni cosa sia possibile perché l’ha detta qualche filosofo di «grandissimo ingegno»; la governante Charlotte (Eva Robin’s) è la donna senza identità, che sciorina ogni sorta di trucchi e magie, che fa apparire e scomparire i personaggi-fantasmi col cavernoso comando Ein, Zwei, Drei. La cialtroneria non risparmia neanche i sognatori più puri come Gaev, Trofimov, Epichodov e la stessa Ranevskaja. Se il dottor Čechov ha fatto di tutti loro dei clown, dei Pierrot, degli eccentrici, non è certo per alleviare i sensi di colpa che li schiacciano. È più facile che voglia prendersi gioco di loro, strapazzarli un po’ e osservarne a distanza lo schianto, magari dietro la maschera del vecchio Firs (Piero Nuti), dimenticato come un oggetto inutile e rimasto solo nella casa/teatro a ricordarci che «la vita è passata, eppure è come se non l’avessi mai vissuta».
Dettagli
- Titolo originale: Il giardino dei ciliegi
- Regia: Valter Malosti
- Anno di Uscita: 2016
- Costumi: Gianluca Sbicca
- Produzione: Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale con il sostegno della Fondazione CRT
- Cast: Elena Bucci, Natalino Balasso, Fausto Russo Alesi, Giovanni Anzaldo, Piero Nuti, Eva Robin’s, Roberto Abbiati, Gaetano Colella, Roberta Lanave, Camilla Nigro, Jacopo Squizzato e con gli allievi della Scuola per attori del Teatro Stabile di Torino: Federica Dordei e Alessandro Conti.
- Altro: Prima Nazionale
Altro
- Testo: Anton Čechov
- Versione Italiana: Valter Malosti
- Consulente per la Lingua Russa: Vera Rodaro
- Scene: Gregorio Zurla
- Suono: Gup Alcaro
- Luci: Francesco Dell’Elba
- Cura del Movimento: Alessio Maria Romano
- Assistente alla Regia: Elena Serra
- Visto il: Sabato, 15 Ottobre 2016
- Visto al: Teatro Carignano, Torino