È finito il tempo di tappare i buchi del presente (solo) con il passato: la creatività tra le due fasi
Su un piano antropologico, potremmo distinguere una “fase 1” e una “fase 2” scandite da tempi diversi da quelle che sappiamo tutti: sono le fasi degli effetti psicologici del lockdown. Se infatti in un primo momento dell’emergenza sono apparsi spontanei i flash mob con le persone affacciate ai balconi per cantare sulla platea vuota di un’Italia segregata tra le mura domestiche, e grande la generosità dimostrata dagli artisti e dai teatri che hanno aperto gli archivi e condiviso le loro opere (molte delle quali non più reperibili dal vivo), in un secondo momento è stata la volta di reazioni più lucide e incisive. Le persone hanno presto smesso di cantare e si sono rintanate definitivamente, per praticare l’arte culinaria e riversare su pizze, pane e dolci fatti in casa le proprie inquietudini. Per quanto riguarda gli artisti, non è stato più il tempo di tappare i buchi del presente con il passato. Anche noi, con la rubrica #SCenerestiamoacasa, a un certo punto ci siamo fermati: abbiamo capito che dovevamo lasciare il silenzio affinché da qualche altra parte qualcuno si accorgesse (non è una grande scoperta, a dire la verità) che gli artisti non sono stati abbastanza tutelati durante questa emergenza, e in fondo sappiamo che non lo erano neppure prima. In molti si sono chiesti che cosa fare. Essere o non essere? Agire o non agire? Ma, soprattutto, dove trovare i soldi per vivere? Quest’ultimo, ad oggi, è (ancora) il problema.
Cinema e teatri sono infatti chiusi da quasi due mesi. La posta elettronica trabocca di comunicati stampa che riguardano iniziative somiglianti fra loro, webinar, spettacoli di teatro online, palinsesti digital: tutte apprezzabili, nella misura in cui è sempre meglio che i social media, aggregatori di contenuti diversissimi, abbondino di letture in live streaming e cultura piuttosto che di immondizia e fake news.
Ma in questi giorni sui social passano anche molti video di attori che protestano perché non riescono a essere ascoltati dal MiBACT, recitando senza voce “L’infinito” leopardiano. C’è da dire che qualcosa, seppure lentamente, si sta muovendo: il Ministro Dario Franceschini ha promesso di ridurre almeno a 15 (o addirittura a 7) le giornate lavorative minime necessarie (con il Decreto Aprile erano 30) per ricevere il bonus economico. Già è qualcosa, ma non è detto che si ritornerà a lavorare in tempi brevi. L’assenza di comunicazione passa per video e parole senza voce e senza suono. Il poeta del pessimismo cosmico si è incarnato nei corpi rassegnati e silenziosi. Il silenzio per arrivare dove non arriva la rabbia. Forse le risposte sul “dopo” meritano attesa, come un’incubazione. L’attesa che il virus buono dell’ascolto si insedi proprio lì, tra le alte cariche istituzionali, dove sono giunte numerose le richieste di aiuto e le proposte degli artisti, gli unici forse davvero in grado di fornire delle risposte, grazie alla loro capacità inventiva. Certo non ha convinto i più l’idea di una “Netflix” per il teatro, anche perché non riuscirebbe a far lavorare una lunga serie di operatori del mondo dello spettacolo dal vivo che di solito interviene “dietro le quinte”, letteralmente, e oltretutto non sarebbe neppure sostenibile da un punto di vista economico, al di là della legittimità estetica o meno del teatro in video.
Ma veniamo a un’altra questione, più specifica. Chi scrive appartiene a quella generazione nata tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, quella a cavallo tra le due crisi in dieci anni. Una generazione particolarmente sfortunata, che subirà gli effetti più sconcertanti di questa crisi: mentre i ventenni saranno sempre bene accolti per farsi le ossa, chi stava iniziando ad affermarsi si vedrà forse – ci auguriamo di sbagliarci – vista la carenza improvvisa di economie, costretto a fare un passetto indietro pur di conservare una presenza nel settore. Quanto lavoro vero, quindi, resterà ai trentenni che lavorano nel mondo del teatro dopo questa crisi? Nel frattempo, conviene comunque studiare, pensare e gettare le basi per una progettualità futura? Agire secondo onestà intellettuale, assecondando una necessità artistica? Per ora, sì. Sul “dopo”, bisognerà star attenti, cercare di non fare passi falsi, di non sprecare, disperdere, energie importanti: fedeli ai propri ideali, per quanto faticoso questo sia, ma uniti nel non ammettere nessun tipo di compromesso che possa far svalutare il lavoro di tutta la propria categoria professionale. Occorrerà “senso civico” anche per questo. “Restare uniti nella distanza” non dovrebbe solo essere lo slogan per prevenire il disastro sanitario, ma anche un’etica e un’estetica da coltivare e applicare: l’ingrediente stesso da “impastare” insieme agli altri nei processi artistici per far lievitare l’arte in questo preciso momento storico, ammesso che ci sia davvero bisogno dell’arte (e noi pensiamo proprio di sì).
In questi due mesi, alcune iniziative si sono distinte proprio perché rifuggono dagli schermi davanti ai quali tendiamo a incollarci la maggior parte del tempo, e per essere state frutto di un’autentica necessità. Alcuni attori, con energie e ottimismo, nella “fase 1” che qui abbiamo indicato hanno fatto della voce lo strumento prediletto del proprio essere artisti, un agire che affiancato all’oggi va esattamente in contrapposizione con i video silenziosi della “fase 2”. In questi mesi hanno fatto parlare bene di sé, per esempio, le Favole al telefono… al telefono di Campsirago Residenza, che ha proposto le Favole al telefono di Gianni Rodari ai bambini per via telefonica, e così anche i Contagi DiVersi – Pronto, chi parla? Risponde una Poesia per farci Compagnia dell’associazione Il Menù della Poesia nata per dare nutrire l’anima a metà marzo in occasione della Settimana della Poesia e devolvere il ricavato in beneficenza per l’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo; la raccolta fondi, terminata lo scorso 13 aprile, ha raccolto oltre 10.500 euro e fatto recitare al telefono oltre 1.200 poesie (visto il suo successo, il progetto non si è arrestato, prosegue per sostenere l’Associazione e il lavoro degli artisti che vi collaborano, tutti i giorni, escluso il lunedì). Progetti come questi ci sembrano esemplificativi di questo tempo, con cui ricercano comunque un confronto, senza timore; costruiscono una relazione diretta, viva, con il pubblico. Ci ricordano di cosa è fatto il teatro. Molti sono a portata di social, s’incontrano per caso su Facebook scorrendo sui vari gruppi tematici dedicati al teatro. E ancora, un modello attraverso cui riscoprire la bellezza di certi viaggi è rappresentato dal progetto cinquiNA. Una proposta davvero particolare, verrebbe quasi da dire “postmoderna”, per la sua orizzontalità e il legame con i processi aleatori. Chi lo ha ideato, realizzato e organizzato – i napoletani Tommy Grieco, Ilena Ambrosio, Chiarastella Sorrentino, Rosita Vallefuoco, Napoleone Zavatto – ha intuito quanto ci sia bisogno di formati sintetici, pratici, della durata di 5 minuti al massimo (leggi l’intervista qui).
Grande spazio ai giovani sta riservando il Teatro di Roma con Radio India, la stazione radiofonica giornaliera ideata dalle cinque compagnie di Oceano Indiano residenti al Teatro India: DOM, Fabio Condemi, Industria Indipendente, mk, Muta Imago, alle quali si è aggiunta per l’occasione anche Daria Deflorian. Un palinsesto live quotidiano, attivo tutti i giorni dalle ore 17 alle ore 20, in diretta streaming su www.spreaker.com e fruibile anche in podcast su www.spreaker.com, Spotify e sui canali online del Teatro di Roma, un format che riesce a intercettare diverse correnti di immaginazione, ipotesi di lavoro e modalità di incontro con il pubblico.
Sempre per un discorso di centralità della voce, tra i nomi internazionali segnaliamo 9 movimenti di Stefani Kaegi dei Rimini Protokoll (disponibile sulla piattaforma Soundcloud attraverso il sito web del LAC di Lugano), che insieme a Sounddesigner Niki Neecke ha realizzato una traccia sonora da ascoltare nel luogo in cui in questi giorni stiamo trascorrendo la maggior parte del tempo: “9 movimenti grazie ai quali stare a casa diventa teatro“.
Il favoloso mondo delle drammaturgie sonore, insomma, sembra oggi offrire gli esiti artistici più liberi e autentici di questo periodo di isolamento sociale, forse perché ci consentono di viaggiare con la mente e di immaginare il nostro corpo altrove, senza bisogno di collocarlo in uno spazio fisico che potrebbe essere oggi, per lo più, fortemente compromesso nel suo potenziale simbolico.
[Immagine di copertina: Foto di Reynier Carl su Unsplash]