Finché morte non li separò. Frosini/Timpano e l’anatomia di una dittatura di coppia
Empatizzare coi mostri. Mostrare le vite sezionate di chi ha assunto, per lungo corso di atrocità e soprusi, la statura di simbolo del male. Nicolae Ceausescu ed Elena Petrescu, ovvero un ventennio di dittatura vera sulla pelle del popolo nel cui nome si fregiavano di operare, sono Gli Sposi, soggetto di David Lescot tradotto da Attilio Scarpellini e portato sulla scena da Elvira Frosini e Daniele Timpano. Ci sono appunto loro due sulla scena, la coppia dittatoriale con una vicenda personale intrecciata al destino di uno Stato, ma c’è anche il potere della narrazione dei vincitori della Storia: l’Occidente che, sfondato il muro visibile delle due Germanie e quello invisibile che separava est e ovest, ha irrorato un’altra fetta di mondo col nettare consumista.
La drammaturgia originale taglia con francesissima ironia la dicotomia Storia-storie. Coppia concettuale illuminata dalla filosofia post-strutturalista, che ci spiegò come il metodo positivistico applicato alla storiografia non potesse esentare i risultati da vizi ideologici. E come dunque la Storia, quella con la “S” maiuscola, sia sempre stata a suo modo un dramma delle parti scritto per impressionare, convincere, trainare nella direzione nient’affatto neutrale che il potere di turno stabilisce. Dalla sua decomposizione originano dei frammenti, pezzetti di realtà insufficienti a coreografare la pantomima della Verità, ma da cui promana la poetica delle cose rotte, ovvero il discorso intimamente tragico di ciò che si trascina dietro con sé la memoria di un’unità perduta. Su quel confine lavorano Frosini\Timpano, su quel sordo piangere, con un linguaggio che gli è consueto, largamente impiegato nel precedente, e per certi versi affine, Dux in scatola. Danzare sui confini è sempre prassi pericolosa: in questo caso, espone al rischio di tagliarsi su lame concettuali perigliose, ghiottoneria per filosofi alla cui prova l’arte viva s’inceppa in traiettorie ampollose, spesso scenicamente poco accattivanti. Ma non è questo il caso.
Ben più di mille sfumature di grigio attraversano i corpi di Ceausescu-Timpano e Petrescu-Frosini, che dipingono con grazia cruda due caratteri autistici, di cui si sottolinea l’irrilevanza umana sin dalle origini campagnole e dall’adolescenza educativamente fallimentare. Due figure nate al margine, nella Romania fascista uscita dal primo conflitto mondiale, che per loro bocca avrebbero potuto intraprendere anche la strada dei “neri”, ma che per opportunità si sono trovati invece a prosperare in quella dei “rossi”. Non possiamo sapere quanto di biografico vi sia in quest’assunzione, e compulsare i manuali di storia ci interessa meno che rilevare quanto quel mondo di mezzo sia tragicamente contemporaneo. La scomparsa delle energie moderate e democratiche finisce per sclerotizzare una dialettica degli opposti che poi opposti non sono, se non per opportunismo politico. Elena e Nicolae sono come estremi di un’asse a cui manca il centro, pianeti che gravitano intorno a un sole spento, concelebranti la vita come rissa e massacro. Dal sonno della ragione, si sa, nascono i mostri: Nicolae ed Elena secondo Frosini\Timpano sono due campioni della “banalità del male”, figli di una formula piatta e fredda come ogni retorica nazionalista. Si dicono due provetti rumeni, figli perfetti della Nazione, ma non nominano mai padre e madre carnali. Si pongono come creature apatiche, senza connotati estetici: “lei non era né brutta né bella”, ripete Nicolae quasi ammirato. Lei appare in effetti senza età, con la pettinatura disordinata, indossando un vestitino bianco sporco, sgualcito, da vita nei campi, perfetto controaltare al completo dell’altro, anonimo costume da burocrate. Di rimando Elena annovera spietatamente i difetti di Nicolae. La balbuzie, la brutalità, l’opportunismo: costanti di un’ascesa politica paradossale, che viene ricordata con poche efficaci pennellate, secondo uno stile ricco di passaggi da teatro dell’assurdo, tirate cabarettistiche e accenti grotteschi.
La comicità slapstick di Daniele Timpano unita all’aplomb fantozziano di Elvira Frosini velano il quadro etico, mirando a innestare una lettura più ambigua, che ci tuffa dentro due anime tutto sommato innamorate. Ma di quale amore si tratta? Più che un riconoscimento del diverso, Nicolae ed Elena sembrano preda di uno specchio, di una codipendenza onnivora ed anerotica. C’è una parola tedesca che potrebbe racchiudere il loro impenetrabile rapporto di scena: zweisemkeit, la “solitudine della coppia”. Il titolo della pièce sottolinea la natura incontestabilmente sacrale, nella misura in cui il sacro lambisce il terrificante, della loro unione. La loro vicenda è in effetti una paradossale rappresentazione del “finché morte non vi separi”, in barba agli amorazzi irrisoluti ed effimeri di questi tempi di consumismo persino relazionale. Il finale opera in tal senso un ribaltamento. Mitragliati in scena, Nicolae ed Elena si rialzano. Raccontano una leggenda in cui il cane della coppia, “liberato” dopo l’esecuzione, inizia a correre per le campagne fino a un punto preciso, dove si mise a scavare. In quel punto si dice che ci fossero i corpi dei due fatti sparire dopo l’esecuzione. La sequenza valorizza l’aura sacrale che avvolge la coppia, che come un’icona pop troneggia ormai al di là di ogni implicazione morale. Regalati ad una pura estesi sovrastorica, provocano una sospensione del giudizio. A seguire, un video mostra immagini da una Bucarest occidentalizzata, piena di shopping mall, movida notturna, vie finalmente colorate e tripudianti. C’è anche la Casa del Popolo, il sogno\segno centralistico della coppia “reale”, illuminata da modernissime installazioni luminose e nient’affatto smantellata dal nuovo corso politico, anzi perfettamente integrata nello skyline della città neocapitalista. Sulle note di Dragostea Din Tei, gli Sposi escono di scena lasciandoci l’amaro in bocca, inondandoci di dubbio ed emozione e suscitando una riflessione profonda sul senso degli avvenimenti, da ripercorrersi con occhi nuovi e più attenti.