Troppo figli per fare i genitori: la “classica storia d’amore eterosessuale” dei trentenni secondo Domesticalchimia
In scena ancora stasera e domani a Milano, a Campo Teatrale, c’è Una classica storia d’amore eterosessuale della compagnia Domesticalchimia, uno spettacolo realizzato con il contributo di Cantiere Moline, Emilia Romagna Teatro e Armunia, ideato da Francesca Merli e Camilla Mattiuzzo, scritto da quest’ultima, diretto da Merli e interpretato da Davide Pachera, Giulia Maulucci, Massimo Scola. Abbiamo sentito al telefono la regista e co-ideatrice per soddisfare alcune nostre curiosità su questo lavoro che indaga l’amore e il tema del rapporto tra genitori e figli dal punto di vista dei trentenni di oggi.
Partiamo dalla compagnia. Come nasce?
Domesticalchimia è costituita da quattro donne: io mi occupo della regia, poi c’è Camilla Mattiuzzo che è la drammaturga, Federica Furlani che è sound designer e musicista, ed Elena Boillat che è performer e anche coreografa di compagnia. Ci siamo costituite nel 2016, anche se abbiamo condiviso percorsi in comune. Io, Elena e Camilla ci siamo conosciute alla “Paolo Grassi”, mentre Federica l’avevo conosciuta precedentemente. Avevamo già alle spalle diverse collaborazioni. Da questo nucleo fondante e centrale abbiamo iniziato a collaborare con diversi attori che ruotano intorno al progetto, e che ora sono già al terzo con Domesticalchimia: Davide Pachera, Laura Serena, Massimo Scola, Barbara Mattarelli, Ettore Pernici sono gli attori con cui stiamo collaborando in questi anni, e adesso c’è anche una new entry, che è Giulia Maulucci, che interpreterà il ruolo della madre in Una classica storia d’amore eterosessuale a Campo Teatrale a Milano.
Il nome della compagnia è Domesticalchimia: a che cosa allude?
Intanto c’era la necessità di avere un nome italiano. Ci sembrava ingenuo affibbiarci un nome “internazionale” o inglese, forse perché sentivamo di far confluire anche nel nome quel percorso che stavamo iniziando a fare.
“Domestica-”, perché abbiamo iniziato a scrivere e a ideare i nostri spettacoli partendo dalle nostre case e dai nostri divani. Perché appena finisci l’accademia è difficile iniziare subito a lavorare a grandi produzioni e quindi abbiamo iniziato a lavorare in intimità, e “intimità” è infatti una parola a cui noi teniamo molto. “-alchimia” perché le competenze di ognuna di noi sono molto diverse: Elena viene dal teatro-danza, Camilla invece lavora con la parola, con la dialettica, mentre Federica è una compositrice e ha studiato al conservatorio, è una violista che ha ultimato anche un percorso di musica elettronica, e lavora con me ormai da cinque anni.
È una compagnia formata nel suo nucleo centrale da sole donne, non ce ne sono molte in Italia. È un aspetto voluto? Come questo aspetto ha influenzato il vostro modo di lavorare?
L’incontro è stato casuale, ma il fatto che il nucleo fondante sia costituito da sole donne è particolare, e i temi che trattiamo o forse il “come” li trattiamo rispondono inevitabilmente a uno spiccato modo di vedere le cose “femminile”. Ma non è una questione di genere. Per quanto noi affrontiamo tematiche universali ci rendiamo conto molto spesso che parliamo di temi che sono per noi donne importanti. Il personaggio conduttore di Una classica storia d’amore eterosessuale è il figlio, il figlio di un nucleo ristretto formato dalla madre e dal padre, ma è chiaro che il personaggio femminile vivrà anche dei nostri riferimenti, come il fatto di essere trentenni con questo lavoro precario che abbiamo e con la difficoltà anche di capire se avremo, o desideriamo, di avere dei figli. Questo ce lo siamo chieste, e infatti il ruolo della madre parla proprio della difficoltà di avere un figlio quando ancora non sei realizzata appieno. Nello spettacolo in sostanza parliamo di un nucleo familiare disfunzionale, perché questi genitori sono ancora troppo figli per fare i genitori.
E si parla di amore. Di una “classica” storia d’amore. Che cosa rende “classica” una storia d’amore eterosessuale?
Noi come compagnia cerchiamo ogni volta di affrontare dei temi che pensiamo riguardino noi e che possano essere importanti per gli altri, per condividere, come facevano i classici, i greci, quelli che sono i tarli della nostra società. Allo stesso modo, non si possono solo trattare i temi di attualità, ma bisogna avere sempre uno sguardo orientato su quei quattro temi che rappresentano i nervi scoperti della società e di cui noi sentiamo ancora come esseri umani il bisogno di parlare: la morte, la famiglia, le relazioni d’amore, il rapporto genitori-figli. In quanto trentenni ci sentiamo ancora troppo figli, ancora non pronti per essere genitori. La condizione dell’essere figli secondo me descrive proprio la condizione della vita umana: puoi scegliere di essere genitore, puoi scegliere di avere un amante e gestire la tua vita sentimentale come vuoi, ma essere figli è una condizione imprescindibile, non puoi sceglierlo. Che cosa allora vuol dire essere figli, al di là del luogo comune? Questo figlio, nello spettacolo, non fa altro che cercare di capire da dove viene.
Quindi, detta così, è una tragedia, ma nel tuo spettacolo si ride. Raccontami il taglio che tu hai scelto per dare voce a questo tema.
È ironico, sì. All’interno di una famiglia, se ci fai caso, viene amplificato qualsiasi tipo di dramma. Anche perché l’amore e l’odio sono sentimenti molto simili. Quindi c’è sia del tragico, ma al tempo stesso c’è anche un elemento molto grottesco e ridicolo. Anche nella vita di tutti i giorni certe volte ci sono delle scene proprio à la Monty Phyton, che ci dicono che relazione abbiamo con i nostri genitori, coi nonni.
È da un po’ che lavorate a questo spettacolo, ricordo una primissima presentazione al Teatro delle Moline di Bologna, dove eravate stati in residenza. Com’è cambiato il lavoro nel corso del tempo?
È cambiato molto, siamo cresciuti e maturati insieme allo spettacolo. E poi c’è questo rapporto molto importante con il pubblico. Abbiamo cercato di rendere più partecipe lo spettatore. Non gli viene richiesto di fare chissà cosa. Gli attori sentono l’esigenza di raccontargli la loro storia, cercando solidarietà ed empatia in certi momenti. E nella ripetizione di questo lavoro, fatto in teatri, città, e con pubblici sempre diversi, gli attori hanno preso maggiore consapevolezza degli strumenti per accomodare il pubblico. È importante prima di tutto che il pubblico si senta a casa con questi personaggi, ecco. C’è una variabile di rischio notevole nel lavoro, che però è anche la cosa che mi piace molto affrontare. Se dobbiamo giocare con quel che avviene ‘qui e ora’, dobbiamo farlo fino in fondo, e provare a vedere quel che succederà.