Il Festival di microteatro BONSAI di Ferrara tra marginalità e illusione
Il 7 e l’8 ottobre, a Ferrara, il Festival di microteatro BONSAI ha invaso il quartiere Giardino. Un luogo al centro della cronaca locale e di quella nazionale in cui, dopo i proclami di Dario Franceschini (ferrarese), è addirittura arrivato l’esercito per iniziare l’operazione “Strade sicure”. Probabilmente da un Ministro dei beni e delle attività culturali sarebbe più lecito aspettarsi parole su un festival di teatro che mira, come ha spiegato il responsabile organizzativo di Ferrara Off Marco Sgarbi nella conferenza di presentazione, a una «rigenerazione culturale del quartiere, che è parte della città e ha un gran bisogno di cultura sperando che da questi piccoli granelli possa crescere qualcosa di buono». La “campagna di invasione”, organizzata da Ferrara Off e da Píndoles – Festival de Microteatre Fora del Teatre di Barcellona, ha toccato punti strategici del quartiere, una casa, una pizzeria, la sede della contrada, il centro di ascolto uomini e la sala polivalente “il Grattacielo” che si trova sotto i grattacieli divenuti ormai simbolo di quella che in città è chiamata zona GAD (Giardino, Arianuova, Doro). Quartier generale dell’operazione è stato Factory Grisù, un consorzio di imprese creative, che ha prestato i suoi spazi per spettacoli, biglietteria e bar.
Sabato 7 si sono potute notare le prime “schermaglie” con tre spettacoli che non facevano propriamente parte del festival ma costituivano una sorta di anteprima con tre proposte che, sfortunatamente, non abbiamo avuto modo di vedere: Lettere anonime per un camminatore, Giro solo esterni con aneddoti e La Venere Nera. Il giorno seguente si è invece entrati nel vivo dei “combattimenti” con i sei spettacoli scelti tra i centoventi partecipanti a un bando nazionale da una giuria composta dai membri di Ferrara Off e Píndoles, da Mario Pedroni (direttore del Teatro Comunale di Ferrara), dalla drammaturga Margherita Mauro e dal direttivo della Web Radio Giardino. Le scelte sono ricadute su performance molto diverse tra loro che, a ben vedere, sono collegate da un filo rosso con impresse le parole illusione e marginalità.
Display, ideato e interpretato da Davide Calvaresi, è una performance di videoteatro che indaga il malsano rapporto che si ha con la tecnologia in una sorta di moderna reinterpretazione del mito della caverna platonico: infatti, come nel libro VII della Repubblica Platone racconta di un mondo finto visto attraverso ombre proiettate sulla parete, oggi si tende a vedere il mondo attraverso lo schermo di uno smartphone.
Perché, non posso? racconta, attraverso l’interpretazione di Domenico Vincenzo Tufano, la banalità del bene che una madre prova per suo figlio arrivando a impedirgli di fare qualsiasi cosa pur di non vederlo nuovamente con una gamba rotta o con un raffreddore. Un figlio che cresce senza possibilità di sbagliare e di fare esperienze nuove perché perennemente intrappolato dall’apprensione della madre che porterà, forse inevitabilmente, ad una fine drammatica.
In Kitchen invece, Giulia Vismara e Laura Ulisse, propongono una performance sonora che reinterpreta rumori domestici come il fruscio delle pagine di un giornale, l’acqua versata in un bicchiere e altri trasformando ciò che può essere fastidioso e angosciante in suoni piacevoli. Nata per durare quaranta minuti, nella sua veste da quindici minuti fatica a rendere la complessità dell’operazione attraverso la quale, nella versione lunga, Giulia Vismara riesce al termine della messa in scena a riprodurre una composizione attraverso i suoni registrati.
In La Barbiera, di e con Elisabetta Salvatori, la protagonista è una bambina che, pur di inseguire il proprio sogno scappa di casa e, dai monti, scende fino a Forte dei Marmi, dove c’è ancora una strada a lei intitolata, e sotto un albero di fico inizia a fare la barba agli uomini del paese; quando ne ha l’opportunità, da adulta, parte con suo marito e va in Brasile, una “terra promessa” ai primi del ‘900. Una storia vera, una storia come tante e, ancora una volta, un mare da attraversare.
Con Eoika si cambia completamente genere: è una performance di danza contemporanea con la quale le ideatrici e interpreti Sabrina Vicari e Federica Aloisio, indagano sull’identità e sulla sua alterazione. Insieme sembrano una sola entità che si sdoppia, le facce sono alterate, girate di novanta gradi col mento sopra la spalla e un unico occhio visibile, l’altro è disegnato sulla tempia mentre bocca e naso lo sono sulla guancia, come in un quadro di Picasso. Completamente vestite di rosso, spingono verso una riflessione che va oltre l’apparente.
In ultimo Rukelie, la storia di Johann Trollmann, pugile sinti campione di boxe e vincitore del titolo nazionale in Germania per otto lunghissimi giorni nel 1933. Scritto da Peppe Millanta e diretto e interpretato da Antonio De Nitto, lo spettacolo riporta un caso emblematico del porajmos, il dimenticato genocidio degli zingari perpetrato dal regime nazista. Nato a Wilsche, in Germania, Trollmann non è tedesco e soprattutto non è ariano. Già nel 1928 gli viene impedito di partecipare alle Olimpiadi (siamo ancora in piena Repubblica di Weimar) e nel 1933 dopo aver vinto il titolo grazie all’acclamazione del pubblico indignato per il responso dei giudici, gli viene imposto un incontro in cui, da regolamento, gli è impedito di danzare intorno all’avversario come era solito fare. Si presenta cosparso di farina e con una parrucca bionda parodiando la fisionomia “ariana”. Sarà costretto a divorziare dalla moglie tedesca per garantire a lei e alla figlia una vita tranquilla, ma lui verrà prima sterilizzato e poi massacrato a bastonate da un Kapò in un campo di concentramento nel 1944. Una storia passata che non va dimenticata, che va anzi ricordata per esorcizzare i pregiudizi culturali del nostro tempo; basti pensare, infatti, a quanto accaduto il giorno precedente alla messa in scena: un politico del Carroccio locale ha manifestato disapprovazione per i soldi spesi dal Comune per un campo sinti, adducendo alla mancanza di fondi per aiutare i cittadini italiani, probabilmente non sapendo che tutti i nomadi di quel campo sono italiani (qui la fonte).
Sei performance, dicevamo, che indagano marginalità e illusione in un percorso creativo particolarmente significativo se si pensa che il quartiere che le ha ospitate è salito agli onori della cronaca come luogo di ritrovo di immigrati e spacciatori. Un quartiere per il quale è stata usata dal questore di Ferrara la parola “bonificare”, asserendo che, come si faceva con l’acqua delle paludi, si debba indurre ad andare in “altri lidi i ragazzi” che la vivono. Nella medesima conferenza però dice anche che “sono per la maggior parte bravi ragazzi, di indole tendenzialmente esuberante e portati al facile litigio e hanno grandi difficoltà a inserirsi nel tessuto cittadino; infatti non riscontriamo relazioni tra giovani ferraresi e nigeriani. Questi giovani litigano, schiamazzano, a volte fanno risse e alcuni spacciano. Il problema, quindi, è che queste persone sono isolate dal contesto”. Se effettivamente quest’ultimo è il problema, un festival come Bonsai potrebbe essere l’abbrivio verso un’integrazione complessa, non imposta dall’alto ma fatta di relazioni biunivoche: una maggiore vivacità della vita culturale, infatti, potrebbe essere senza dubbio l’arma migliore.