Father John Misty – Pure Comedy
Father John Misty è un artista complesso che trova la sua identità nella scissione da se stesso, poiché nella decostruzione del suo “io” reinventa qualcun altro. Infatti, nel 2012, il musicista – all’anagrafe – Josh Tillman diventa il suddetto Father John Misty; la scelta di dare vita a un altro sé, in potenza il suo vero “io”, è ben spiegata in un’intervista: “Dovevo sentirmi a posto con me stesso ed è così che è avvenuto il cambio di personalità, liberando alcuni eccessi del mio carattere […] Ho soltanto smesso di essere qualcosa che non sono”.
Con questi presupposti nascono Fear Fun (2012), I Love You, Honeybear (2015) e ora Pure Comedy, in cui l’alter ego di Josh racconta lo sfaldamento umano dovuto all’eterna dicotomia tra l’apparenza e l’essenza, tra ciò che ci si impone di essere (convenzionali e dozzinali) e ciò che non si ha la forza di essere (se stessi). Di qui la pure comedy inscenata dall’uomo giornalmente, che è insieme lotta coraggiosa contro un mondo costantemente giudicante e resa inevitabile rispetto all’onnipotenza del circostante (non mancano sagaci invettive contro le politiche di un Occidente corrotto e corruttibile). La convivenza di tale bipolarità è immediatamente resa dalla copertina del disco, sulla quale compare un’inestricabile massa umana simil-dantesca sotto un cielo blu cobalto, quasi a riprodurre “La notte stellata” di Van Gogh (merito dell’estroso Ed Steed, illustratore del New Yorker). Il singolo omonimo (che ha anticipato l’uscita dell’album, costituito da 13 tracce e accorpato ad un documentario filmato dallo stesso Tillman), si presenta in pieno stile Elton John (il timbro vocale non lascia spazio ad altre suggestioni), magicamente orchestrale (preminenza di pianoforti) con un esordio in medias res: “the comedy of man starts like this, our brains are way too big for our mothers’ hips//la commedia dell’uomo inizia così, i nostri cervelli sono troppo grandi per i fianchi delle nostre madri”. Sulla stessa linea si muove Total Entertainment Forever, un pezzo blues (trombe e sax), nel quale FJM canta del potere omologante e soggiogante della tecnologia, tale da invalidare la propria identità: “and someone’s living my life for me out in the mirror/in the New Age we’ll all be entertained, rich or poor, the channels are all the same//e qualcuno sta vivendo la mia vita per me nello specchio/in epoca moderna noi saremo tutti intrattenuti, ricchi o poveri che siamo, i canali sono tutti gli stessi”. In Ballad of the Dying Man (superba sin dal titolo per l’associazione naturale a Bob Dylan), basata principalmente sul suono di una chitarra acustica e di un pianoforte, un uomo moribondo si illude ingenuamente che la critica sociale di cui ha intriso tutta la sua vita in procinto di finire, sia un bagaglio di cui gli altri (inferiori a lui) non potranno fare a meno (“naturally the dying man wonders to himself: has commentary been more lucid than anybody else?/and had he successively beaten back the rising tide of idiots, dilettantes and fools//naturalmente l’uomo morente chiede a se stesso: il commento è stato più lucido di chiunque altro?/ed ha successivamente battuto la marea montante di idioti, dilettanti e sciocchi”); ma bisognerebbe imparare, secondo l’artista, ad accettare i propri limiti: we’ll all be wrong someday/avremo tutti torto un giorno.
Leaving LA è una nenia solenne che, tuttavia, diventa un non necessario vaneggio per la sua lunga durata (quasi 13 minuti!), nonostante venga esplicata la difficoltà di colmare il divario tra se stessi e la propria maschera, complice anche un atteggiamento di indifferenza, come quello perpetratosi ai danni di un bambino che rischiava di strozzarsi con delle caramelle e che nessun passante occasionale aveva provato ad aiutare (aneddoto autobiografico); il dominio dilagante e corrosivo di una politica evidentemente sbagliata (per restare in tema di onnipotenza) diventa il tema centrale di Two Widly Different Perspectives, contrassegnata ancora una volta dalla presenza ossessiva dei pianoforti e di The Memo, magistrale nelle sonorità, sia per i rimandi ad Harvest di Neil Young, sia per la presenza di un organo in sottofondo che le conferisce un’aura sacrale (come non aspettarselo da un uomo che si fa chiamare “Padre”?); l’attacco è perlopiù rivolto a Trump (FJM è originario del Maryland, USA) e alla sua politica di immigrazione tendente all’esclusione del diverso.
Qualche “pecca” di questo disco è ravvisabile nell’infruttuosa lungaggine di alcuni momenti (Bigger Paper Bag) e in certe “cadute di stile” dietro le quali si cela una malriuscita ironia (“bedding Taylor Swift every night inside the Oculus Rift//scoparsi Taylor Swift ogni notte dentro la virtualità ). Tuttavia lo spessore delle tematiche, il carattere impegnato, le sonorità blues, la voce tornita vincono anche sui “vizi di forma”. Che la commedia vada in scena.