Fai bei sogni. Quell’incontro inaspettato tra il cinema d’autore e la cultura pop Made in Italy
Marco Bellocchio maneggia con maestria il bestseller di Massimo Gramellini, facendone una pellicola ad alta tensione emotiva per simpatizzanti del genere e non.
Essenziale, riconoscibile, catartico: questi gli attributi più consoni a descrivere Fai bei sogni, l’ultima pellicola di Marco Bellocchio, tra i registi che oggi mantengono ancora uno stretto legame con il vecchio cinema d’autore italiano. Un cinema italiano d’autore che oggi non è solo che faccia fatica a emergere, ma che non si vede se non nei timidi tentativi di ricerca e sperimentazione di attori giovani. Apprezzabili, ma che non bastano a poter parlare oggi propriamente di cinema d’autore.
Marco Bellocchio tra i nostri registi è senza dubbio uno dei più raffinati e composti, capace di partorire film pericolosi quanto un campo minato: film che ci sono, escono in sala silenziosamente e poi accendono dibattiti che non possono trovare altro se non confronti, perché dare una risposta a quesiti troppo alti ti porterà inevitabilmente in settori metafisici. Forse a Bellocchio Fai bei sogni, besteseller del vicedirettore de La Stampa Massimo Gramellini deve essere piaciuto per questo: una vicenda, quella di un lutto personale del giornalista, che tenta di dare una risposta a tutti quei personaggi emblematici del suo cinema che la risposta la stanno ancora cercando, perché se anche il film è finito, come si dice, the show must go on.
È un incontro inaspettato quello di Gramellini e Bellocchio in Fai bei sogni: non sarebbe mai potuto avvenire politicamente se pensiamo al target di pubblico di uno dei giornalisti che occupano ogni settimana la poltrona del salotto di Che tempo che fa, ed infatti avviene su un piano sul quale in alcuni casi, nonostante le divergenze sociali e politiche, è ancora possibile incontrarsi. Quel piano è quello umano, di cui per ironia della sorte si ciba quella cultura pop che continua senza misure a screditare e popolarizzare la letteratura, la musica, il teatro, il cinema e l’arte in generale. Se provassimo però a guardare da un’altra prospettiva quella cultura, se cominciassimo a riflettere sul perché esiste e cosa ci comunica, quale linguaggio utilizza, a chi parla e perché, potremmo fare la stessa operazione di Marco Bellocchio. Rintracciare una perla nera tra miriadi di perle bianche.
Quella che Bellocchio porta sullo schermo non è la storia di Gramellini, non gli interessa raccontare la storia del giornalista tanto popolare in televisione e sulla carta stampata per i suoi consigli, il buongiorno, i libri di facile vendita e lettura. A Bellocchio interessa l’uomo, e in questo rimane fedele al suo cinema: indagare, cercare l’uomo, che deve farsi uomo. La pellicola avrebbe potuto correre il rischio di trasformarsi in un biopic dal tratto documentaristico, e quel tratto Bellocchio per parlare delle sfondo italiano un po’ non lo abbandona mai, o in un film biografico d’elogio: invece è freddo, distante, non c’è alcuna compartecipazione, persino le coordinate spazio-temporali potrebbero essere variate se giocassimo con la narrazione. È la storia di uomo che deve fare i conti con la vita troppo presto e impara una lezione difficile: accettare ed accettarsi.
Il piccolo Massimo/Nicolò Cabras perde la madre a nove anni. Nessuno in famiglia si preoccupa di spiegargli un giorno la verità circa la sua morte, ma ce ne si lava le mani lasciando che con il tempo Massimo/Valerio Mastandrea, diventato uomo, possa comprenderlo da solo. Un padre/Guido Caprino poco affettuoso, distante emotivamente e poco presente, lo rendono un ragazzo che deve diventare grande da solo, poco consapevole di cosa voglia dire amare. Non è un caso che nel giornalismo lui intraveda una luce: provare a dare agli altri quella verità che lui non ha mai avuto, sentirsi parte del movimento del mondo, di una comunità, trovare un senso, mantenere vivo quel desiderio di vita costantemente minacciato dalla solitudine. Una luce che scoppia da dentro, perché la fotografia di Daniele Ciprì non mente: fredda, pacata al punto giusto che tenta timidamente di sciogliere l’armatura dei protagonisti, concentrati e dallo sguardo lucido sui loro mondi.
La perdita di una madre in tenera età è un vuoto incolmabile, ma il regista di Bobbio senza forse rendersene conto, riesce attraverso la sua pellicola a darci una lettura della perdita che va oltre un caso specifico: ci si può sentire orfani anche senza una morte, perché in fondo morta la madre, Massimo non sarebbe solo, ma si ritrova circondato da persone che conservano un misterioso germe di difesa che impedisce loro di amare, di dirsi quelle frasi tanto banali quanto importanti come un “come stai”. C’è un aspetto che colpisce del protagonista tinteggiato da Bellocchio: la sua capacità di riuscire, nonostante il dolore, il ricordo che fa male e una corazza ben sala che si è costruito, a trovare sempre uno spazio, che scorre di pari passo con la sua vita lavorativa fatta di successi, per interrogarsi su se stesso, sul suo stato d’animo e su quella morte avvolta nel mistero.
Fai bei sogni, come molti hanno giustamente notato è probabilmente la pellicola meno ermetica di Bellocchio, in parte anche per la fonte dai cui attinge. Un libro che oggi non rappresenta certo il meglio della nostra letteratura, ma che nonostante ciò, e il nonostante è una parola chiave all’interno del film, ha qualcosa da dire se si stropicciano gli occhi alla maniera giusta: saper fare propria un’idea, trovare un altro modo per raccontarla, cogliere l’universalità e inventarsi un altro come.
Dettagli
- Titolo originale: Fai bei sogni
- Regia: Marco Bellocchio
- Anno di Uscita: 2016
- Genere: Drammatico
- Fotografia: Daniele Ciprì
- Musiche: Carlo Crivelli
- Costumi: Ina Arnautalic, Maya Gili, Olga Michalowska
- Produzione: Italia, Francia
- Cast: Valerio Mastandrea, Bérénice Bejo, Guido Caprino, Fabrizio Gifuni
- Sceneggiatura: Valia Santella, Edoardo Albinati, Marco Bellocchio