Eva Kot’àtkovà – Anselm Kiefer @ Hangar Bicocca, Milano
Nella Milano moderna e industrializzata, in una sorta di luogo non luogo, dove sorgono i maestosi plessi dell’Università Bicocca, ho assistito ad una mostra, che si protrarrà fino al 22 luglio, dedicata a tre artisti della contemporaneità: Lucio Fontana (di cui su questa rivista si è già scritto), Eva Kot’átková e Anselm Kiefer.
Negli hangar dell’Università, appunto, le diverse istallazioni di Kot’átková hanno trovato uno spazio appropriato: l’artista di origini ceche, che ha già partecipato a contesti artistici di levatura nazionale ed internazionale (Biennale di Lione, Biennale di Sydney, Biennale di Venezia) utilizza un linguaggio frastagliato, non sempre di facile comprensione, nella maggior parte dei casi evocativo e volto a riflessioni di matrice esistenziale (la domanda che, più di altre, mi ponevo osservando il circostante, è stata “che cosa siamo diventati oggi?”). Di fatto questa artista si occupa di analizzare le funzioni e le disfunzioni della società contemporanea, applicando, a quest’ultima, l’utilizzo di forme geometriche, di oggetti di vita quotidiana o di materiali di diversa composizione che rimandano alla corporalità umana. Stomach of the World, per esempio, è l’applicazione su fondo nero, delle più svariate “cose” di uso giornaliero (forbici, taglierini, stendipanni, grucce, pentolame). La quotidianità, secondo l’artista ceca, passa attraverso il linguaggio del corpo, quasi fosse un’estensione della nostra stessa fisicità: Why my body is made up of: a set of knives and forks, a set of cogwheels, and old press, a laundry basket, a bottle with sour pickles, a bag of salt for frozen paths […]. Ciò che possediamo – la roba, per dirla con Verga – acquisisce un significato sociale, talvolta calzante, talaltra forzato e non sempre (a mio avviso) collimante con la realtà: fili di ferro e scarpe sfondate sono il frutto di quello che Kot’átková classifica come disordine e ansia. Dal contesto giornaliero, si passa, estemporaneamente, al mondo onirico, su cui gravita buona parte del mio interesse: The Dream Machine is Asleep, che è il sottotitolo della mostra, si compie attraverso l’installazione di un grande letto a cui si accede tramite una scala (tale concretizzazione potrebbe rimandare al linguaggio infantile; chi di noi, in tenera età, non ha dormito almeno una volta, in un cosiddetto letto a castello?). Sul soffice materasso dell’Hangar, si possono ascoltare frammenti dei sogni di chi si è già disteso lì precedentemente. Qui si porta in vita non solo il linguaggio dei sogni e quello dei bambini, ma anche la volontà di creare una sorta di social catena tra noi e gli altri, tra noi e l’arte stessa che, a partire dalle Avanguardie primonovecentesche a cui Kot’átková guarda, assume una valenza interattiva. Il capolavoro di The Dream Machine is Asleep è, tuttavia, contenuto nella simulazione di una pièce teatrale, Cutting the Puppeteer’s Strings with Paper Teeth: il palco, posizionato davanti ad una panca sulla quale l’osservatore può leggere la bozza di una sceneggiatura, è sovrastato da una serie di burattini che “dialogano” con una voce fuori campo (il loro burattinaio). Metaforicamente l’artista ceca porta in scena forme di manipolazione mediante il linguaggio del corpo, l’autorità e la violenza fisica e psicologica, in tal caso di un burattinaio nei confronti del suo burattino; quest’ultimo “reclama” il furto della sua identità alla polizia. Con questa serie di istallazioni l’artista ceca riesce a rappresentare, con inarrivabile creatività, le emozioni che il corpo comunica.
L’hangar successivo è, invece, dedicato all’artista tedesco Anselm Kiefer, che “lavora” in senso più propriamente manuale e visivo: attraverso I Sette Palazzi Celesti, sottotitolo della mostra, lo spettatore viene condotto all’interno di una surrealissima città: la “passeggiata” tra i suddetti palazzi (realizzati con cunei in piombo e cemento) diventa, in verità, simbolico cammino d’iniziazione spirituale di colui che vuole avvicinarsi al cospetto di Dio. Al termine di questo suggestivo incontro con il mondo celeste, vi è la rappresentazione di un dipinto enorme il cui titolo è Melancholia, dedicato alla figura, si potrebbe azzardare salvifica, dell’artista: infatti sin dal Cinquecento si riteneva che Saturno, il pianeta della malinconia, appunto, rappresentasse la riflessività e l’indole malinconica che caratterizzano i cosiddetti uomini di cultura. Alcuni di essi vengono nominalmente rappresentati sul dipinto, inframezzati da serie numeriche che classificano i corpi celesti (e che, per estensione, riprendono il concetto espresso dalle grandi impalcature retrostanti).
Con questa mostra si appura, ancora una volta, la capacità dell’arte di interfacciarsi con l’uomo, in un gioco di allusioni, volte all’interiorizzazione di un linguaggio esteticamente pregevole.