Editoriali "Arti Performative"

Drodesera, World Breakers e la semplicità della ricostruzione

Renata Savo

C’è un luogo dove chi ama i linguaggi del teatro contemporaneo avrebbe piacere di far ritorno sempre, tutte le estati, anche solo per una sera. È a Dro, un paesino incastonato tra le Dolomiti, distante circa 15km da Riva del Garda – città turistica che, affacciandosi sul lago di estensione maggiore in Italia, è più simile a una località di mare che di montagna – e 6km da Arco, dove c’è un bellissimo castello sulla vetta di un monte la cui sagoma scoscesa, da lontano, ridesta archetipi infantili e visioni fiabesche…

A Dro, costeggiando il fiume Sarca e seguendo per pochi chilometri la SS45bis in direzione Limone sul Garda, sorge un altro luogo incantato, la Centrale Fies: una delle più rilevanti testimonianze di archeologia industriale del Trentino, una centrale idroelettrica che dall’inizio del ‘900 ha alimentato il fabbisogno energetico del territorio (e in parte non ha ancora cessato questa sua funzione) e che dal 2000, invece, sfama gli appetiti di arte e linguaggi performativi delle persone provenienti da ogni dove con il festival Drodesera, giunto alla sua trentaseiesima edizione, intitolata “World Breakers“.

Un’estate fa, su queste pagine abbiamo raccontato l’importante appuntamento che attira turisti, appassionati e addetti ai lavori, nell’arco di tutto il periodo festivaliero. Quest’anno, invece, ci siamo accontentati di fare un salto, letteralmente, il 29 luglio.

Abbiamo ritrovato, allora, la performer di Belgrado Vanja Smiljanic: la scorsa edizione l’ha vista vincitrice del contest di apertura del festival dedicato alla performance art, LIVE WORKS, e dunque assegnataria di un ulteriore periodo di residenza artistica all’interno della Centrale Fies. La Smiljanic ha portato avanti con Waves of Worship (WOW) il suo lavoro a un progetto composto di tre performance-lecture sul tema del Popolo Cosmico e della religione ufologica. Dopo il precedente The Anthem of the New Earth/Remastered (seconda tappa della trilogia) dove, in video – scrivevamo – «una congrega di persone inscena rituali bambineschi agli alieni» e si vedono «angeli che salveranno la terra dai disastri ecologici», il nuovo spettacolo ne segue la scia e si concentra su variazioni dello stesso argomento – la lotta tra il Popolo Cosmico (un movimento, cui l’artista appartiene, interno ai seguaci della religione ufologica) e i Sauriani, una razza aliena che Vanja Smiljanic collega al cyber spazio e al suo analogo tentativo di controllo sulle strutture sociali – soffermandosi, infine, sul significato delle bandiere usate nelle “coreografie di adorazione” del Popolo Cosmico. La struttura a numeri della performance, però, qui più marcata rispetto al precedente lavoro, favorisce la funzione didascalica della performance a discapito dell’entertainment, risultando, quindi, non perfettamente calibrata, privata del ritmo e del climax ascendente verso l’assurda e fragorosa comicità che erano stati, invece, apprezzati nel capitolo visto durante la scorsa edizione.  

Scesi, ma di tono, anche i Sotterraneo: proprio al festival Drodesera la compagnia fiorentina – che assieme ad Anagoor e a Marta Cuscunà fa parte del progetto Fies Factory a sostegno della creazione contemporanea – ci aveva regalato uno dei suoi momenti più sensazionali con Sold Out. L’evento spettacolare, unico e irripetibile, celebrava i dieci anni di attività del gruppo rievocando episodi salienti delle produzioni uscite dal repertorio, di cui si mettevano all’asta gli oggetti di scena. Stavolta, proseguendo nella stessa direzione quella linea partecipativa dello spettatore nelle dinamiche di costruzione drammaturgica, in Postcards from the Future i Sotterraneo hanno concepito tableaux vivants da fotografare e spedire come cartoline provenienti dal 2066, 2616 e 3066. Trascinati in scena come figuranti, gruppi di spettatori guidati per filo e per segno dagli attori e criticamente non “emancipati” – direbbe J. Ranciére – sono chiamati a comporre scenari futuribili, descritti e narrati da una voice off, sul tema della mutazione genetica, biologica e culturale; ma ciò avviene all’interno di una struttura drammaturgica praticamente assente e sofferente di qualche meccanismo di gamification non troppo incisivo (come la proposta, avanzata nel tempo intercorso tra una “cartolina” e l’altra, di scambiarsi il braccialetto con cui gli spettatori erano stati automaticamente suddivisi in gruppi, sin dal loro ingresso, per consentire il loro coinvolgimento).

Ugualmente attratta dalla possibilità di strutturare performance su dispositivi ludici, la compagnia di danza contemporanea diretta da Francesca PenniniCollettivO CineticO, presente al festival con i suoi 10 Miniballetti (che purtroppo, come anche Socrate il sopravvissuto di Anagoor in scena quella sera, non siamo riusciti a vedere) e con un percorso dedicato, per un solo spettatore alla volta, dal titolo La Casa di Pietra del Fratello Maggiore. Allestito all’interno della zona “Case” staccata dal corpo della Centrale, qui, dopo essere stati gentilmente accolti all’ingresso (pensato come una sala d’attesa dove un video su una parete costruisce aspettative di fruizione da film dell’orrore), gli spettatori sono intrattenuti da performer che comunicano attraverso la scrittura e invitati a prendere decisioni attraverso procedimenti aleatori, sul percorso da seguire tra le varie stanze. Azioni da compiere decisamente inaspettate inseriscono lo spettatore-partecipante in una dimensione perturbante, simbolica e arcana, per un’esperienza davvero coinvolgente e ricca di stimoli sensoriali.

Un’altra bella sorpresa, meritevole di qualche parola in più di approfondimento, è stata Zvizdal di Berlin (Bart Baele, Yves Degryse, Cathy Blisson): documentario tra cinema e teatro, sulla vita quotidiana di un’anziana coppia in Ucraina dopo il disastro di Chernobyl (1986). Nonostante la previsione di effetti devastanti e cronici causati dall’esplosione del reattore nucleare in tutta Europa, i due coniugi Pétro e Nadia si opposero all’ordine di lasciare il villaggio Zvizdal, situato nell’area dichiarata altamente pericolosa e radioattiva.

Cathy Blisson ha raccontato in una video-intervista pubblicata da «Artribune», a cura di Dalila D’Amico e Chiara Pirri, che l’indagine funzionale allo spettacolo-documentario si protrasse oltre il previsto, dopo aver compreso che avvicinarsi alla vita dei protagonisti rimasti nel villaggio stava cambiando la sua. Si era recata più volte sul posto come giornalista culturale per Télérama: un background professionale niente affatto casuale se si pensa che i trascorsi nel campo del giornalismo non sono estranei agli artisti dei teatri del reale e del documentary theatre (anche Stefan Kaegi dei Rimini Protokoll, per esempio, faceva il giornalista reporter, per poi interessarsi all’utilizzo di elementi documentari nelle sue drammaturgie). Insieme a Degryse e Baele, Cathy Blisson ha, così, incontrato, intervistato e filmato per cinque anni, in diverse stagioni, la vita di Pétro e Nadia.

Anime solitarie nella loro terra in mezzo al nulla. L’una accanto all’altra unite, come una cosa sola. Si vedono complici in ogni rito quotidiano, dalla coltivazione del terreno all’allevamento del bestiame, a tutte quelle attività di sussistenza che hanno permesso loro di godere della felicità persino – o soprattutto? – nel proprio isolamento. Pétro e Nadia somigliano a due personaggi beckettiani su uno sfondo post-apocalittico: trascorrono i giorni assecondando la recita dell’esistenza, con amara ironia, ed è forse questo l’aspetto più interessante dello spettacolo. Interessante, commovente e profondo. Tutto il potenziale teatrale che la vita da sola ha da offrire spunta in un contesto così circoscritto e disagiato accanto all’amore, al bisogno dell’altro, attraverso le parole dei protagonisti che oltrepassano limiti di spazio e tempo. «Non mi rimane molto tempo per cercarne un’altra», afferma uno smilzo e languido Pédro, inquadrato dalla telecamera mentre sopravvive, come la sua compagna, all’attesa angosciante di un destino inevitabile.

Chi sarà il primo a morire (se non altro, di vecchiaia)? È un pensiero opprimente, la morte. Una catastrofe che minaccia ogni giorno di abbattersi sui loro corpi, sull’amore; o meglio, non è l’idea della morte in sé afflizione, quanto l’abbandono e la solitudine conseguenti.

Fin qui, il film, bellissimo: il “teatro”, allora, dov’è?

Berlin integra il “cinema” all’interno del dispositivo teatrale. Gli spettatori sono situati gli uni di fronte agli altri su due lati, ma la loro vista reciproca è interrotta dai due schermi (su cui viene proiettato il film verso ciascuna delle due platee): due strati di un muro, si può dire, eretto al centro della scena, a ricordare, forse, un’altra coattiva separazione fisica di quegli anni, la Cortina di ferro che nel 1986 ancora separava in due l’Europa. 

Sotto gli schermi, una fila di tre tavoli dall’area circolare su cui poggiano plastici architettonici riproduce minuziosamente tre stagioni della vita agreste di Pétro e Nadia. Una telecamera vi si muove sopra, selezionando e filmando porzioni di quel mondo fittizio che in tempo reale interferiscono con il l’immagine-documento filmica: un espediente tecnico che porta anche il teatro dentro il cinema, interessante dal punto di vista visivo, ma lascia fuori lo spettatore. Più che farlo addentrare in quel mondo (come dichiarato da Cathy Blisson nell’intervista di «Artribune» citata sopra) ne respinge l’accesso, incorniciando e immergendo il reale in un bagno di artificio. Tuttavia, l’effetto positivo che ne deriva è l’assunzione di una visione “critica”, non superficiale o banalmente empatica.

La vita in Zvizdal si mostra edificata sulla sua elementare struttura, come un calco. Ed è magnifica così, perché nella scoperta della sua semplicità si cattura la sua forma più nobile. Forse questo è il significato condensato nella sera trascorsa al festival di questa edizione animata da world breakers, o quello che ci piacerebbe immaginare ora, in questo momento storico delicato per il nostro Paese. Nella visione ottimistica delle cose, cioè quella che il teatro dovrebbe sempre incoraggiare, essere “distruttori di mondi” non significa “distruggere”.

Il teatro può dirsi ancora fedele alla natura nella misura in cui osserva la legge di Lavoisier: nulla si crea o si distrugge, tutto si trasforma. Sarebbe bello riuscire a esercitare la consapevolezza che ogni cosa possa trasformarsi con la stessa semplicità in cui Berlin realizza un calco della vita o Sotterraneo passa da una cartolina all’altra edificando realtà possibili.

Ci aiuterebbe molto, perché proprio la consapevolezza di questa semplicità, insieme alla volontà di renderla efficace nell’immediato (come anche avviene nel percorso per un solo spettatore realizzato da CollettivO CineticO), traduce la produzione di accadimenti come possibilità di cambiamento anche nella vita reale. Distruggere, allora, ribaltando la prospettiva, nella visione ottimistica – e anche più fredda, lucida – del reale che il teatro può e deve spingere, ha un senso: provare a ricostruire

Come insegna il teatro, però, qualsiasi tipo di teatro, partecipativo e non… per ricostruire c’è un gran bisogno dell’altro.

 

 



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