Drodesera IPERNATURAL: sconfinamenti dall’umano in cerca di nuove narrazioni del corpo
Sempre più fucina artistica, luogo di residenza, di invenzione, di riflessione, Drodesera. La trentanovesima edizione, ultimo capitolo di un ciclo triennale, si è svolto dal 19 al 27 luglio, e non poteva avere un titolo più significativo, IPERNATURAL, ponendo l’accento sulla radice primaria dell’essenza, l’idea prima del fenomeno, il caos informe che precede e sovrasta qualsiasi obiettivo definito e ultimo.
In questi anni, infatti, il festival diretto a Dro (Tn) da Barbara Boninsegna, che lo ha fondato insieme a Dino Sommadossi, ha preso a cuore l’impegno di molti artisti in quella che è stata lungo l’arco di quasi tutto il XX secolo un’ex centrale idroelettrica, ovvero, la suggestiva e imponente Centrale Fies che negli anni Ottanta ha abdicato alla sua originaria funzione per diventare, a partire dal 1999, impresa culturale, casa di artisti e vetrina di un’arte dai contorni sfumati che si propaga ben oltre lo spazio fisico d’origine.
Uno dei meriti di questo festival che lo rendono agli occhi degli operatori del settore un appuntamento imperdibile dell’estate festivaliera italiana consiste nella presentazione di lavori di grande trasversalità linguistica che anticipano la circuitazione nazionale (un esempio è, per restare alla data di cui quest’anno abbiamo fatto esperienza diretta, il 25 luglio, Cuckoo di Jaha Koo/CAMPO, che sarà in scena a Roma nell’ambito del festival Short Theatre il 10 e l’11 settembre) e in generale nel dare al suo pubblico, spesso, quell’unica possibilità in Italia di vedere certi spettacoli prodotti da realtà internazionali di alto livello. È un luogo di scoperta, per chi lo frequenta, il festival Drodesera, che si nutre del lavoro costante della Centrale Fies Art Work Space e del suo affiatato team. Un eremo il cui fascino è già ispirazione, dove ritrovarsi e riconoscersi parte di una comunità significa provare a istituire un ecosistema dove si può fare arte senza pregiudizi e senza imposizioni, con l’unica regola di non avere regole, estendendo il concetto stesso di performance e andando a sondare terreni prima inesplorati.
Cavalca quest’onda, per esempio, lo studio portato in scena dal CollettivO CineticO, che ci ha abituato a spettacoli in cui la scrittura performativa connessa all’addestramento fisico è importante ma non rappresenta l’assoluto del linguaggio, che al contrario si arricchisce attraverso espedienti presi a prestito dall’arte concettuale e dalla comunicazione situazionale. Pericolare, il nuovo lavoro presentato in forma di studio, conferma questa vocazione allo slittamento tra i codici – parola, musica, video, azione – e, come tale, è opera per certi versi sofisticata e non semplicistica, aperta a molteplici chiavi di lettura. Simone Arganini, Carmine Parise, Angelo Pedroni e Francesca Pennini sono, nel nostro sentire, quattro corpi vivi che ripensano l’umano meditando su una forma vegetativa, conseguenza, forse, di un’epoca di ipertrofia tecnologica; ne sono simbolo, nello spazio algido della scena, dei cactus in cui sono innestati smartphone tra le curve, strumenti, come altri presenti (un antico grammofono), di trasmissione del segnale sonoro. L’indagine tocca, in un certo senso, il rapporto dell’uomo con il suo istinto represso e le forme in cui questo istinto si ripresenta in altri contesti – non a caso, lo studio reca il sottotitolo di Primi esercizi di pornografia vegetale. La fruizione dello spettacolo ha previsto in questa occasione, quasi a corollario non separato dall’esperienza di visione, un foglio di sala con suggerimenti e istruzioni, condividendo una modalità affine a quella del teatro d’opera, ovvero la possibilità di consultare il libretto per seguire meglio lo sviluppo dell’azione o di leggere i sopratitoli per comprendere il senso delle parole cantate. I commenti alle 11 scene, esposti dal CollettivO CineticO all’interno del foglio, rivelano delle potenzialità di linguaggio interessanti, e se da un lato determinano un orientamento dello sguardo, dall’altro lo fanno senza comprimere l’orizzonte dell’interpretazione, configurandosi, piuttosto, come invito alla liberazione dalle usuali modalità fisiche di approccio alla visione. Nella parte chiamata nelle note di sala “esercizi di auto-intrattenimento”, infatti, si legge: «lo spettacolo prevede una visione contemplativa MA in caso di necessità, di maggiore intrattenimento si consigliano le seguenti pratiche per una esperienza visiva fai-da-te personalizzata […]».
Che cosa ci fanno, quindi, all’ingresso nella Sala Mezzelune, quindi, quattro corpi nudi giacenti a terra, con cuffie rosse vistose e un filo nero agganciato a un piede, e un cartello con su scritto “Wake up Angelo to start”? Il foglio di sala spiega: “Stiamo dormendo da molto prima che voi arrivaste. Speriamo che vada tutto bene”. È una narrazione che sfocia nell’ironia, quella di Pericolare, e interloquisce direttamente con gli spettatori, che assurgono a figure de-soggettivizzate atte all’espletamento di funzioni organiche di composizione: dare il via all’atto performativo – come una sorta di inseminazione, che fa venire in mente la meccanica evocata dal Grande Vetro di Duchamp, recante il sottotitolo La Sposa messa a nudo dai suoi scapoli– e decretarne la conclusione attraverso un segnale convenzionale, una “fuoriuscita” dalla propria posizione di semplici spettatori per decidere di essere spettatori-attori, condizione influenzata da fattori di “resistenza” e di “piacere” messi in gioco durante la contemplazione estetica (ed estatica) dei quattro performer dalle fattezze burattinesche. Alcune immagini, accompagnate dal lirismo sonoro del Winterreise di Franz Schubert, capolavoro del genere romantico del Lied, a tratti virtuosistiche nella loro precisione coreografica e sconfinanti nel grottesco, appaiono immediate nella loro esposizione, che emula, come a descriverle accuratamente, le linee melodiche dei brani di Schubert.
Una prova di resistenza, ma di tutt’altro genere, quella di Marco D’Agostin e del suo First Love. Dopo i ghiacciai del precedente Avalanche, non si scioglie la passione per le ambientazioni dal gelo polare, che, a voler far fede proprio a questo nuovo lavoro, avrebbe affiancato – persino anticipato – quella per la danza. Il “primo amore” del titolo, infatti, fa riferimento a uno sport: non al popolare calcio, bensì allo sci di fondo, e in particolare ai successi mondiali dell’atleta Stefania Belmondo. Un piccolo souvenir viene distribuito agli spettatori che entrano in sala, una busta da lettera con una cartolina che riporta il testo dell’omonima canzone First Love di Adele; l’immagine sul davanti ritrae il giovane bambino D’Agostin in compagnia della grande campionessa; a corredo, una spilletta, un piccolo oggetto che si porta convenzionalmente attaccato sul cuore, riporta l’illustrazione di un luogo dell’anima dalle vette innevate. Una lettera che si fa omaggio, dichiarazione, e soprattutto “performance” di quell’amore provato per la prima volta tanti anni fa. Così D’Agostin: “First love è un risarcimento messo in busta e indirizzato al primo amore. È la storia di un ragazzino degli anni ’90 al quale non piaceva il calcio ma lo sci di fondo – e la danza, anche, ma siccome non conosceva alcun movimento si divertiva a replicare quelli dello sci, nel salotto, in camera, inghiottito dal verde perenne di una provincia del Nord Italia“.
I primi minuti sono riproduzione certosina in playback del canto di Adele, e fanno da “apripista” a una prova che svela doti intepretative e imitative che ancora non avevamo assaporato appieno nei precedenti lavori di D’Agostin: dagli Olympic Games omaggiati dallo spettacolo condiviso sul palco con Chiara Bersani, dunque, alle Olimpiadi di Salt Lake City 2002, sfondo della più emozionante gara sostenuta da Stefania Belmondo, di cui D’Agostin reinterpreta vocalmente la telecronaca dall’inizio alla fine. Più le emozioni profuse da quella rievocazione toccano momenti cruciali di quella gara, più la performance assume ritmi aerobici e sostenuti, che D’Agostin riesce a controllare nella voce con straordinaria imperturbabilità, senza tradire la minima sbavatura o affanno. Anche qui, come nel lavoro di CollettivO CineticO, ispirato al carattere vegetativo seppellito in ciascun essere umano, avviene una sorta di metamorfosi, di trascendenza, e la scena è una danza di ritmi e accenti vocal-performativi diversi in cui si perde qualcosa di umano per far posto a una forza mostruosa, quasi sovrannaturale, dimentica del senso di precarietà e di fragilità fisiche dell’uomo. Un effetto raggiungibile grazie a un allenamento intensivo, a una disciplina poderosa, ma ancor prima a un’autentica, forte motivazione, a un vero amore, di cui D’Agostin ci comunica con la sua atletica performance l’estasi e la potenza. Sul finale cadono fiocchi di neve artificiale, e siamo come davanti a una palla di vetro, analoga a quella celebre che, sul grande schermo, scivolava dalle mani di Orson Welles/Foster Kane in Citizen Kane, il cui ultimo pensiero andava a uno slittino, l’enigmatico “Rosebud” simbolo d’infanzia perduta. First Love è, così, un meraviglioso e nostalgico sospiro. Una dedica al proprio ‘io’ rimasto indietro e condotto per mano. Un sincero omaggio ai nostri miti nascosti, alle vocazioni sopite, fatto per amore, con amore.