Cinema Il cine-occhio

Downhill

Stefano Valva

Nel cinema contemporaneo siamo fin troppo abituati ad una visione psicanalitica della vita familiare (senza dimenticare che il deus ex machina sono state delle opere del periodo americano di Alfred Hitchcock): i film per esempio di un cineasta caro al tema, ossia Noah Baumbach – che vadano da Marriage Story, fino a The Meyerowitz Stories – entrano nel sub-conscio dei rapporti relazionali attraverso litigi, gelosie, paure, traumi, rancori e divisioni. Lì il rapporto familiare e coniugale è raffigurato come un’estenuante terapia, un climax teatrale che aumenta gradualmente l’intensità delle sequenze, giungendo ad un’esplosione o ad un’implosione della narrazione.

Una pellicola come Downhill – remake dell’omonimo film svedese del 2014, diretto da Ruben Ostlund – seppur tematicamente si avvicini ai film di Baumbach, è allo stesso tempo l’altra faccia di una medaglia, dato che il plot è caratterizzato da un evento eccezionale scatenante, non da una processualità.

Una famiglia classica americana è in vacanza sulle Alpi in Austria. La loro quotidianità muta quando una mattina una valanga di neve sta per abbattersi sulla terrazza dello chalet mentre i turisti sono a colazione. Il comportamento dei due coniugi è diametralmente opposto: la moglie istintivamente cerca di proteggere i figli dal pericolo incombente; il marito, impulsivamente, si allontana per mettersi in salvo.

Tale dinamica fa sorgere una riflessione interiore nella coppia, scatenando anche una sorta di crisi matrimoniale durante il soggiorno, perché probabilmente quel gesto improvviso – durante una casualità – ha esteriorizzato una parte dell’altro, che il partner non conosceva, e che di certo non può apprezzare.

In primis, Downhill ripropone archetipi topici della famiglia: la madre come simbolo in ogni momento di protezione, di culla, di nido, di presenza indissolubile; il padre come figura ambigua, in alcuni casi egoista, più intenta a far provare ai figli in solitaria certe situazioni delicate.

L’evento scatena un plot, che inizialmente si stava indirizzando verso una semplice comedy (anche per la presenza di due buonissimi attori del mondo delle commedie statunitensi, ossia Julia Louis-Dreyfus e Will Ferrell), con inoltre dinamiche relazionali e psicologiche, che una coppia dedita alla routine non conosceva per niente: le incomprensioni; il denigrare; conoscenze extra-coniugali; quel momento di debolezza, che prova a farti allontanare dall’istituzione matrimoniale; la presenza tal volte “oppressiva” ed “ingombrante” dei figli, difficili da gestire e da educare.

Naturalmente, la cornice della pellicola rimane pur sempre una comedy, essa non sfocia mai nel drama o nel romanticismo, e – nemmeno attraverso le situazioni sceniche menzionate – si avvicina all’aura e alla ricerca umana/esistenziale dei film di Baumbach. Questo perché l’evento della valanga crea una situazione contestuale, ove la vacanza viene etichettata come momento di perdizione (un po’ come Un giorno di pioggia a New York di Woody Allen, anche se lì la perdizione attiva un nuovo inizio), giungendo ad un epilogo ben definito, che il cinema psicologico-postmodernista non può invece ottenere.

La regia a quattro mani di Nat Faxon e Jim Rash – seppur scenicamente coerente – si apre ad una miriade di temi e di situazioni, che per forza di cose una produzione comedy/dark comedy non riesce a razionalizzare, e ad evolvere in maniera esaustiva. La regia, d’altronde, è fondamentale, poiché la sceneggiatura è a tratti visuale, dedita ai gesti e alle espressioni, alle immagini-azione e al mascheramento delle emozioni. Perciò le inquadrature delle sequenze sono (in superficie) diversificate: campi lunghi; panoramiche; campi medi; primi piani. Eppure, i registi non costruiscono un virtuosismo stilistico, attraverso un decoupage, che per forza di cose dovesse essere peculiare.

Quello che riesce meglio – alla sceneggiatura, più che alla regia – è la gestione di un dubbio amletico: il comportamento durante l’evento è occasionale, o è un dato preoccupante per la coppia?

Tale quesito tormenta i personaggi – soprattutto la moglie – in ogni parte del minutaggio, in toto 85 minuti, che bastano per la crescita repentina del suddetto dubbio, ma non sono sufficienti per la parte più psicologica e psicanalitica, che Downhill non può non echeggiare, nonostante una narrazione di entertainment.

Perché il beneficio del dubbio non nasce da un’indagine in itinere (vedi 12 Angry Men di Sidney Lumet, una delle pellicole più lucide su tale macro-tema), bensì su un aspetto relazionale primordiale, che nella società odierna – sfacciatamente conformista e capitalista – è ancor più in voga: la continua valutazione dell’altro. Le azioni, i comportamenti, i gesti, sempre in giudizio, per una quotidianità del matrimonio costantemente ad alta pressione; basti notare lo status mentale del marito, dopo la mancata tragedia.

La valanga di neve allora è un’onda potentissima, che si abbatte sulla quotidianità e sul viaggio di due coniugi, e che diviene nel post-trauma una valanga di emozioni, di resa dei conti, di perplessità e di disintegrazione del nucleo. L’uomo in Downhill è schiavo degli eventi, del caso, dell’irrazionalità (e ovviamente della natura), non è artefice del proprio destino, ma è inevitabilmente assoggettato dagli impulsi e dalle pulsioni incontrollabili, le quali possono essere in ogni momento un bonus o un malus all’interno dei rapporti con l’altro.

Il matrimonio (in Downhill, come in altre rappresentazioni artistiche) ha allo stesso tempo due sfaccettature, che creano un ossimoro: può essere un filo di Arianna oppure una Sfinge, che rispettivamente è un sostegno nel labirinto della vita, e/o ti fossilizza in un’esistenza ciclica e routinaria.


  • Diretto da: Nat Faxon, Jim Rash
  • Prodotto da: Stefanie Azpiazu, Anthony Bregman, Julia Louis-Dreyfus
  • Scritto da: Jesse Armstrong, Nat Faxon, Jim Rash
  • Tratto da: "Forza Maggiore" di Ruben Östlund
  • Protagonisti: Julia Louis-Dreyfus, Will Ferrell
  • Musiche di: Volker Bertelmann
  • Fotografia di: Danny Cohen
  • Montato da: Pamela Martin
  • Distribuito da: Searchlight Pictures (USA)
  • Casa di Produzione: TSG Entertainment, Filmhaus Films, Likely Story
  • Data di uscita: 26/01/2020 (Sundance), 14/02/2020 (USA)
  • Durata: 86 minuti
  • Paese: Stati Uniti
  • Lingua: Inglese

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