Dissipatio
Una delle sensazioni del lockdown all’italiana (recentemente visto in chiave ironica e comica nel film omonimo di Enrico Vanzina) durante la primavera 2020 – a causa della pandemia – è stata la dispersione, la divisione, o metaforicamente l’evaporazione dell’essere, e della socialità esterna alla quale si era abituati (anche se, a causa dell’ossessione per la scatola nera ossia per lo smartphone, essa era già da prima alterata). Dispersione, o meglio il suo latinismo “Dissipatio” è il titolo del nuovo documentario di Filippo Ticozzi, che dopo essersi immerso nella perversione del bondage in Still-Lifes, presenta al 61° Festival dei Popoli un girato casalingo con egli stesso come protagonista, per cercare di mostrare – senza filtri – la noia e la solitudine durante l’inimmaginabile quarantena.
Dissipatio è un’opera in bianco e nero (presumibilmente scelti solo in chiave allegorica), ove ne fa da padrone l’inquadratura asincrona: per tutta la durata del mediometraggio, il suono e l’immagine sono scissi e non collidono mai. Ciò rende la narrazione confusionaria, contorta, caotica e divisiva, proprio come lo stato d’animo del regista/protagonista, che utilizza la corporeità con movimenti poco dinamici, così da trasmettere allo spettatore anche l’inquietudine.
Lo spazio filmico è racchiuso in una closed room, ove non esiste intensità teatrale dovuta ad uno scambio comunicativo (il quale avviene solamente tramite l’utilizzo dello smartphone, per mandare sporadici messaggi vocali agli amici, così da analizzare preliminarmente con l’altro l’assurdità del momento), il personaggio è unico e solo, ed inoltre le poche volte nelle quali la camera guarda l’esterno in profondità di campo è per visualizzare l’ospedale tetro e silenzioso, ove però è in corso un’emergenza sanitaria devastante; ed infine il cortile, che sembra tanto vicino quanto lontano, perché anch’esso è diventato irraggiungibile, in primis per una forte paranoia, che blocca il corpo e la psiche.
Ogni azione del protagonista si ripete e diviene routinaria: dal tagliarsi la barba folta, a scrivere messaggi digitali, dalla compagnia della televisione (la quale tartassa di notizie sui dati epidemiologici), fino all’ora dell’allenamento in camera.
Dissipatio è un pastiche che fa di necessità virtù, proprio perché il cinema cerca di adattarsi ad un ambiente risicato, senza avere una libertà produttiva e strutturale, ergo è impossibilitato ad esprimersi al meglio. L’opera, d’altronde, è un intrecciarsi di svariati video riprodotti in due mesi e poi montati, per soffermarsi sul come la forma cinematografica può rappresentare in immagini una situazione più unica che rara, da immortalare come una storica fotografia.
La dispersione senza dubbio è stata una caratteristica di quel periodo, eppure essa non può essere il solo riassunto, l’unico sentimento situazionale. Quindi sorge anche un problema tematico, di un cinema che aldilà delle vicissitudini strutturali ed espressive inevitabilmente sorte (per sviluppare un tipo di opere che non possono rifletterne in pieno l’artisticità, non per lo spazio, dato che il cinema teatralizzato anche in una stanza è divenuto un sotto-genere affascinante negli anni, bensì per la mancanza di mezzi e narrazioni), è probabilmente ancora incapace di raffigurare e di narrare una riflessione psicanalitica che dovremo metabolizzare dentro noi stessi, quindi oggi essa non è (ancora) esteriorizzabile in maniera razionale.
Nonostante ciò, l’esperimento di Ticozzi resta, sia in virtù del fatto che il cinema per quanto forma d’arte, è allo stesso tempo più di altre universale e sintetica, quindi si fa – che piaccia o meno – ovunque e in ogni contesto, sia sulla questione della sfera sociale, che non può essere sostituita creando un mondo virtuale, bensì va difesa secondo dei canoni analogici, per evitare una dispersione dell’Io, che rischia di non essere momentanea come il lock-down, bensì permanente.
Se il romanzo Dissipatio Humani Generis di Guido Morselli era influenzato dai temi della fantascienza post-apocalittica, anche il documentario omonimo (o quasi) di Ticozzi sembra consegnare all’autore una visione di una società dell’assurdo e quindi anch’essa vicina al distopico, caratterizzata essenzialmente dal nulla, dalla solitudine e dalla perdita, sia del sé, sia dell’altro, sia in conseguenza della libertà.
- Diretto da: Filippo Ticozzi
- Prodotto da: Filippo Ticozzi, Federico Minetti
- Fotografia di: Filippo Ticozzi
- Montato da: Filippo Ticozzi
- Durata: 39 minuti
- Paese: Italia
- Lingua: Italiano