Arti Performative Dialoghi

Michele Sinisi e ‘Riccardo III’

Renata Savo

In scena al Teatro dell’Orologio, Michele Sinisi con ‘Riccardo III’. Riportiamo le sue risposte a qualche nostra domanda sullo spettacolo.

Al Teatro dell’Orologio, fino al 23 novembre possiamo assistere al Riccardo III di Michele Sinisi.

Lo spettacolo possiede un legame molto particolare con il testo di Shakespeare – ispirato alle sanguinose vicissitudini dinastiche tra York e Lancaster che colpirono l’Inghilterra della seconda metà del XV secolo, note anche sotto il nome di Guerra delle due Rose. Da esso, Sinisi sceglie di isolare il monologo iniziale del re, rielaborandolo in direzione di una scrittura scenica.

Riccardo III, re di York, manifesta nelle parole che aprono il testo l’invidia che nutre verso il fratello Edoardo IV d’Inghilterra, regnante con successo nel suo Paese. Lo assalgono un’angoscia esistenziale e un istinto a professare il male che derivano da malessere e deformità esteriori; nello spettacolo questo stato d’animo viene proiettato ed elevato fino a materializzarsi in una sorta di allegoria dell’intera opera.

Incuriositi dalla coraggiosa scelta registica – che mette al centro di un discorso sull’opera il protagonista con le sue deformità e le turbe mentali – e dalle suggestioni visive che si evincono molto bene da alcune foto dello spettacolo, abbiamo deciso così di scrivere a Michele Sinisi e fargli qualche domanda preliminare sul suo lavoro, prima di prenderne visione.

 

La scrittura scenica della performance – in cui il testo diventa soltanto un “pretesto” – fa venire in mente una serie di esperienze teatrali che soprattutto intorno agli anni ’60 animavano le cosiddette “cantine” del Nuovo Teatro (penso soprattutto a Mario Ricci per l’importanza accordata agli elementi visivi, e a Carmelo Bene per la “guerra al testo”…). Ma penso anche all’Amleto di Romeo Castellucci, del ‘92. Come mai, secondo te, Shakespeare si presta sempre bene a questo tipo di creazioni, “autonome” rispetto alla fonte (inizialmente incomprese dal grande pubblico che, spesso impreparato, si aspetta di vedere dell’opera un classico riadattamento)?

Credo che Shakespeare si presti bene quanto altri autori i cui testi sono ormai classici. Tutti i testi e i relativi personaggi (spesso come nel caso di Riccardo III) diventano mitici se riescono a raccogliere intorno a sé la memoria culturale di comunità intere. La comunità mondiale si riconosce intorno a figure come Ulisse e l’Odissea, Shakespeare con Amleto, Otello, Jago, Riccardo III, Romeo e Giulietta e altri, Edipo e altri ancora…  quella italiana anche intorno a Pinocchio, Dante, i Canti Leopardiani, Sciosciammocca di Miseria e Nobiltà. Bene, intorno a questi miti credo sia possibile girare intorno e descriverli di riflesso, dove la prospettiva di questa sponda diventa l’evoluzione del linguaggio scenico rinnovato nella sua contemporaneità. Riccardo III, con la sua deformità fisica ed emotiva, è un caso esemplare con la sua gobba, la sua cattiveria, la sua totale bruttezza.

Quali conflitti, nuclei drammatici (o drammaturgici), entrano in gioco nella tua personale visione dell’opera? Cosa, insomma, ti ha colpito della tragedia al punto tale da decidere di metterla in scena (oppure – se preferisci – «toglierla di scena», come direbbe Carmelo Bene)?

I passaggi sono quelli riguardanti le azioni delle uccisioni di Riccardo, i suoi ordini e l’imprevedibilità delle sue decisioni sempre estreme. Centrale, anche in senso ironico, è invece quella del dialogo con Lady Anne. Questi sono i punti più conosciuti del testo e costituiscono i ponti drammaturgici col pubblico, tramite i quali voglio evocare l’intera arcata dei fatti e del mondo di Riccardo.

Come mai hai scelto di pronunciare il monologo iniziale dell’opera in lingua originale?

L’atto di recitare il solo monologo iniziale è legato al desiderio di trovare in quei versi la densità necessaria per far intravedere tutto il suo piano e quindi ciò che segue. La scelta dell’inglese segue questa scommessa di non raccontare una storia ma di viverne esclusivamente le motivazioni e le conseguenze fisiche ed emotive su una segnata presenza di dinamiche sensoriali: odori, oggetti che arrivano al pubblico e vista di segni fortemente pittorico-figurativi e suoni improvvisi, violenti e musicali come nel caso del testo che qui trova un rapporto orizzontale col tutto. Il testo in inglese non ha un’azione logica ma empatica tanto quanto tutto il resto, sta in mezzo alla scena e contribuisce sullo stesso piano a costruire il mondo mitico di Riccardo III.

Da qualche parte ho letto che questo Riccardo III ha qualcosa di “autobiografico”. In che modo, e in quale misura, lo è?

La traccia autobiografica del progetto è legata allo shock vissuto nella mia vita privata parallelamente al mio tentativo di allestire il testo di Shakespeare. All’inizio lo spettacolo prevedeva 13 attori attorno ad un tavolo e nel percorso di allestimento cercavo di rendere “reali” le emozioni che quel testo suggeriva attraverso i fatti che narrava. Poi, di fronte alla finzione del teatro, la vita è venuta a prendermi a schiaffi, svegliandomi da quel mio tentativo presuntuoso e superficialmente occidentale, spesso corredato di inutile accumulo. In quel momento decisi di congelare il progetto per riprendermi dai fatti reali. Dopo 4 anni ho deciso di riaprire quella porta e di stare da solo in scena a rimettere tutto sulle tavole al punto da far diventare quei fatti la vera necessità. In questo viaggio l’incontro con Francesco Asselta [co-autore, ndr] è stato fondamentale perché lui è riuscito a puntellare un conato di emozioni messe a tacere per tanto tempo.

 

 

 

 

 



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