Masque Teatro, l’avanguardia e la filosofia: indagine sulla meccanica anima del mondo
Emilia Romagna, anni Novanta. Sorgeva la “scena ardita dei nuovi gruppi”, quelli che sarebbero in seguito stati chiamati i “Teatri 90”, nome che avrebbe risuonato al punto tale da diventare il titolo di una rassegna di arti performative curata da Antonio Calbi al Teatro Franco Parenti di Milano in collaborazione con l’Eti. Si trattava di Motus, Fanny & Alexander, Teatrino Clandestino, Masque Teatro: formazioni che avrebbero indicato la strada al teatro del futuro, e che sarebbero diventati il teatro del futuro, cioè del nostro presente; ma prima di diventare futuro si sono uniti a cavallo tra i due millenni in luoghi di sperimentazione ai margini dei centri urbani. Provavano all’interno di garage, capannoni, spazi degradati. Per economia di risorse, e forse anche un po’ per scelta: era come fare un passo indietro nel tempo, come tornare a fruire dei contesti di produzione vissuti dalle avanguardie esplose durante gli anni Sessanta, solo che i tempi erano cambiati, i mezzi erano cambiati, ed erano maturi per liberare una spiccata curiosità verso le possibilità estetiche di amplificazione sonora, delle tecniche di post-produzione, di ibridazione con le arti visive e con la videoarte.
Tra le campagne di Cesena e Forlì nasceva, a Bertinoro, “Il Ramo Rosso”: uno spazio fuori dagli schemi, un’officina creativa in cui cercare un’identificazione, una nuova voce tra le voci emergenti di quegli anni. Fu così che nel 1992 Lorenzo Bazzocchi, e insieme a lui Catia Gatelli, fondò Masque Teatro: una compagnia che oggi ha sede a Forlì, nel cuore della città, operante all’interno di un nuovo spazio. Nuovo, e pulsante: il Teatro Félix Guattari, al quale hanno dato il nome del filosofo che, collaborando a stretto contatto con Gilles Deleuze, è stato fondamentale per lo sviluppo della poetica del gruppo teatrale, basata su speculazioni filosofiche, matematiche, tecnologiche che hanno portato il gruppo a indirizzare la propria ricerca verso la trasmissibilità, per mezzo della scena, di teorie altrimenti poco digeribili, in un rapporto costante di interrogazione verso le potenzialità di espressione offerte dal medium.
Masque Teatro ha rischiato e scommesso sulla propria identità artistica spostandosi in città, e infine ha vinto la scommessa. In ottobre, ogni anno, dal 1997, la compagnia organizza “Crisalide”, un festival di respiro internazionale, un luogo di confronto: di visioni e di linguaggi.
Abbiamo incontrato Masque Teatro proprio nel Teatro Fèlix Guattari di Forlì, in occasione della presentazione di un nuovo studio da loro realizzato. Il lavoro, allo stato attuale, interseca teatro e arti visive, Piero Della Francesca e Marcel Duchamp, la Resurrezione e Il Grande Vetro. Il progetto, nato nell’ambito delle iniziative collaterali alla mostra Piero della Francesca. Indagine su un mito, si chiama Archè e consta di due parti, Meccanica Anima e Anémic Cinéma. Nasce in collaborazione con la Cinemovel Foundation, realtà itinerante che si (pre)occupa di portare il cinema dove quasi non c’è mai stato, e indirettamente, quindi, adempie allo scopo di sviluppare benessere culturale, sociale ed economico nei territori che incrocia sul suo cammino.
La prima delle due parti del progetto Archè vede in scena una macchina teatrale complessa, composta di tre pannelli. Anzi, tre architetture mobili. Sui pannelli laterali di questa sorta di polittico sono proiettati i due dipinti: le immagini subiscono interferenze visive, modulano in una sinfonia di forme di pari passo con evocazioni sonore elettroniche. Il pannello maggiore, quasi come se s’identificasse con la parte centrale di un trittico medievale, ricorda nella bipartizione verticale Il Grande Vetro di Duchamp. In alto, una figura femminile (Eleonora Sedioli), e apparentemente androgina, esplora la superficie bronzea e metallica della parte superiore mediante il contatto fisico e il suo posizionamento nello spazio, con una destrezza e una consapevolezza scenica da sembrare priva di gravità, assecondando nella presenza della sua carne una funzione plastica che fa assimilare il suo corpo scultoreo a un altorilievo; la sua massa sinuosa si confonde con l’entità unica e triplice del dispositivo macchinico della scena. In basso, seduto su uno sgabello, o una sorta di piedistallo, Lorenzo Bazzocchi. Inizialmente resta immobile, con il volto coperto da una maschera che ricorda il capo di una scultura classica abbandonata in un deserto metafisico dechirichiano. Le parole che a un certo punto comincia a emettere, una volta liberata l’espressività del volto che era stata trattenuta dietro le sbarre della sua persona, stanno all’evento scenico come il canto di un aedo sta all’occasione del convivio; la funzione epica è sottolineata anche dal battito metrico di un piede sul suolo, pedale acustico dell’intera macchina scenica.
Non diciamo altro, e lasciamo che siano le parole di Lorenzo Bazzocchi a spiegare questo accadimento, al quale fanno seguito, nella seconda parte del progetto – destinata alla fruizione in uno spazio all’aria aperta (che condizioni metereologiche sfavorevoli hanno impedito, il 19 giugno, di realizzare) – le proiezioni di corti cinematografici d’avanguardia creati da artisti attivi intorno agli anni Venti nel solco del Surrealismo: da Man Ray, a Marcel Duchamp, ad Hans Richter. A queste succedono, infine, quelle sperimentazioni cromatiche, forse meno note e quindi più ricercate, dell’ondata d’avanguardia degli anni Settanta rappresentata da registi come Derek Jarman. Si tratta in entrambi i casi di esperimenti generati dal desiderio di affrancare il linguaggio dalle strutture della narrazione: un problema che ha impegnato gran parte del dibattito scatenatosi intorno ai temi del postmodernismo durante tutta la seconda metà del Secondo Novecento, con cui gli stessi Masque Teatro hanno dovuto confrontarsi.
R. Ci sono dei punti fermi nella vostra ricerca, come il lavoro sul concetto di macchina, ma nel corso degli anni il vostro linguaggio ha avuto delle evoluzioni. Penso all’uso della parola, che è subentrata in un secondo momento nel vostro percorso. Anche in questo studio, per esempio, non entra in gioco subito, l’unica voce è quella di una partitura sonora che interferisce con l’immagine, ma poi la comparsa della parola, incarnata dall’attore, è una sorta di epifania. La Figura che indossava la maschera, simile a una scultura animata, diventa da un certo punto in poi una sorta di cantore che invece di “narrare” una storia “descrive” il Grande Vetro. Ecco, forse sarebbe meglio partire dal testo. Di che cosa si tratta?
L. Il testo è un ricavato da alcune elaborazioni: viene da Apparenza nuda di Octavio Paz che prende in esame sia Il Grande Vetro sia una serie di opere che lui ritiene essere le più importanti di Duchamp, assieme ad altre fonti. La storia del Grande Vetro viene illustrata da diverse figure che in qualche modo danno delle interpretazioni anche lontane le une diverse dalle altre: Schwarz legge Il Grande Vetro da un punto di vista alchemico, quindi individua anche delle sostanze che sono il sale, lo zolfo, il cinabro, mentre Octavio Paz guarda Il Grande Vetro solo come una sorta di proiezione. Diciamo che al tempo dell’infatuazione di Duchamp, della prospettiva, abbiamo pensato che ci potessero essere degli aspetti che potessero legare il mondo di Piero Della Francesca con quello di Duchamp.
R. Da un lato c’è la matematica di Piero Della Francesca applicata alle arti visive, dall’altro c’è Duchamp che è l’emblema di un’arte concettuale. Quindi, concetto e matematica: due parole che si sposano bene. È un caso, un’intenzione, o un retaggio della sua passione per la matematica, pane quotidiano dei suoi studi di ingegneria?
L. Vorrei un po’ sfatare questo mito, perché abbiamo sempre lavorato con dei materiali che ritengo interessanti per trasmettere delle emozioni. Per me la macchina è un po’ come un tappeto rosso, come una poltrona. Il fatto che ci si avvicini alla macchina non si deve vedere come un amore per la macchina o per il macchinico. A me interessano i colori, certe proporzioni che si possono realizzare con elementi metallici o di altro tipo, anche arborei. E questo mi affascina: la possibilità di avere delle architetture. La macchina è probabilmente un mezzo sufficientemente semplice per ricreare delle possibilità che alla quotidianità della scena, se viene affrontata attraverso un testo dialogico, solitamente non si danno. Altra questione, per esempio, è l’elevazione. Spessissimo non viene praticata. Sembra un elemento considerato normalmente poco interessante.
R. E infatti a un certo punto si è portato in primo piano l’idea che ci troviamo in un’epoca in cui prevale l’orizzontalità, mentre nell’opera del Grande Vetro c’è una componente verticale, così come nella lettura; con la sposa in alto e gli scapoli in basso.
L. Sì, nello specifico del Grande Vetro Duchamp si diverte a mettere in contrapposizione due mondi, che poi però anche lì…
R. …sono contradditori? Concettualmente, intendo: “sposa/scapoli”?
L. Quello che non io sento, ma probabilmente Octavio Paz sente, è che vengono messi a confronto due modi di lettura: la sposa in fin dei conti è la proiezione su mondo tridimensionale di un affare che è quadridimensionale; il mondo degli scapoli è semplicemente una proiezione tridimensionale su un piano bidimensionale. Lui confronta queste diverse possibilità di visione. Poi, dopo, che lui inserisca la sposa o lo scapolo, per me è uno stratagemma narrativo che serve a illustrare qualcosa che reputo abbia estremamente a che fare con delle architetture a dimensioni diverse. Duchamp rimane affascinato da Pawlowsky che nei primi anni del 1910 è il direttore della rivista «Viaggio nel paese della quarta dimensione», che è uno dei pochissimi quotidiani dedicati allo spettacolo dal vivo – e quindi anche all’arte – che avevano una maggiore tiratura rispetto addirittura a “Le Figaro” (una cosa abbastanza straordinaria in quegli anni) e questo Pawlowsky dava molto spazio a tutta una serie di letteratura che se non era fantascientifica, era comunque vicina a un certo immaginario.
R. Quello che mi ha colpito molto del vostro spettacolo, e quindi del vostro teatro, è la presenza di una duplice qualità: una consistenza materiale, artigianale, plastica, incarnata nella presenza di una macchina celibe, che per definizione è complessa ma fine a se stessa, e la bidimensionalità della tecnologia video, reificata a sua volta. Insieme, queste due qualità sono capaci di creare un cortocircuito: le proiezioni non sono immobili nello spazio, ma avanzano e retrocedono, perché sono sopra a dei pannelli mobili. E questo movimento produce suggestioni, effetti illusionistici… Mi ha colpito anche il segno di una linea orizzontale rossa che scorre sulla proiezione del dipinto della Resurrezione di Piero della Francesca, a “scansionare” l’immagine: quella linea, come i baffi alla Gioconda di Duchamp, costituisce un segno dissacrante, e in un duplice senso, perché non si tratta solo di un’opera d’arte, ma di un’opera d’arte “sacra”. Quindi quella linea diventa come uno sfregio doppiamente de-sacralizzante.
L. Da parte nostra è stato più uno stratagemma per individuare la linea dell’orizzonte. La vicinanza tra le due opere non è stata casuale. Nell’ambiente sepolcrale della Resurrezione di Piero della Francesca ho visto una linea di separazione, e quindi ho cominciato a ragionare su una possibilità di avvicinamento, che è dunque estremamente ostica, difficile. Quindi, la linea che scannerizza, per noi, è stata davvero uno stratagemma per indicare in modo non troppo didascalico che quella era la nostra scelta.
R. A proposito della lettura e dell’interpretazione, che ruolo ha lo spettatore? C’è un margine di libertà, di apertura (per tornare a Duchamp e all’arte concettuale, dove l’interpretazione dello spettatore è al servizio dell’opera e la completa)?
L. Io credo fermamente che il teatro, qualcosa che viene visto, debba avere una sua vita propria. Il che è abbastanza blasfemo per la letteratura corrente. “Qualcuno” diceva che per poter esserci Teatro occorra la presenza di un attore e almeno di uno spettatore. Io, invece, ho sempre sostenuto la necessità che l’opera teatrale potesse in qualche modo rendersi viva, non dico attraverso la solitudine di coloro che la operano, ma di sicuro attraverso lo stare in un luogo per arrivare a creare dei meccanismi di vita che non sento così assolutamente e strettamente necessari alla presenza di un testimone. Sono il primo ad ammettere che nello stesso Coefficiente di fragilità – che è uno spettacolo lo stesso dedicato a Duchamp, del 1995 – risiedeva un lavoro totalmente costruito sulla relazione di uno spettatore, da solo o assieme agli altri. Lì la relazione “attore-spettatore” diventava determinante, però anche in quel caso lo spettatore era come una macchina che serviva a far funzionare un meccanismo scenico. Nonostante tutto, ribadisco questa necessità anche di non mostrarsi al termine dell’opera. Sento che la costruzione attraverso questa modalità rimane salva. La stessa figura che ha realizzato una cosa che tu vedi e che è scritta, che ha certe caratteristiche di “sopravvivenza”, poi immediatamente rischia di diventare qualcun altro: diventi Lorenzo Bazzocchi, l’attore, il regista che va a raccogliere l’applauso (l’applauso, o comunque, la reazione dello spettatore). È come togliere alla costruzione. E io questo problema lo sento molto forte.
R. Ché poi, alla fine, è un po’ la necessità dell’artista postmoderno, per cui l’”Io” è tutto, riempie l’opera, le dà legittimazione di esistere. Come lo stesso Duchamp ha fatto per la prima volta con l’orinatoio ribaltato chiamandolo “fontana”.
L. Diciamo che Duchamp era un genio. Era riuscito a cogliere probabilmente in anticipo una necessità che poi si è manifestata. Nel nostro caso è semplicemente una difesa di quello che viene fatto appena prima. Se mi sono mostrato “così” non posso mostrarmi diversamente, altrimenti per me decade tutto. Dall’altro lato, però, c’è anche il bisogno del pubblico di manifestare affetto o negatività per quello che ha visto. Non è che voglio negare questo. Da parte mia non c’è dietro una visione del mondo, ma solo il desiderio di preservare l’opera.
R. Alla fine l’applauso diventa quasi più una convenzione che altro. Oggi sembra che il pubblico applauda davanti a qualsiasi cosa, anche verso ciò che non si è apprezzato.
L. Non lo so se è una convenzione, ma almeno in teoria l’applauso è un veicolo di trasmissione di un messaggio che risponde a una necessità dello spettatore, alla necessità di un confronto (quando è veridico), ma non ha a che vedere con l’opera in sé.
R. Rispetto al titolo del progetto complessivo, Archè: è riferito all’espressione della libertà creatrice, a un ritorno alla purezza del segno privo di significato, a un logos destituito dall’obbligo di narrare? In che cos’altro si esprime questo principio?
L. Leggendo delle considerazioni di Michelangelo a proposito della luce e della sua necessità di mostrare la luce interiore delle figure, è venuto fuori questa sorta di evento che fa parte della natura originaria di un essere: lui, in qualche modo, cerca di individuare degli stratagemmi per poterti mostrare questa sorta di presenza, non dico antica, ma che probabilmente appartiene quasi al nostro DNA, alla nostra struttura, come un “archetipo” della figura. Quando si è stati nella necessità di coniugare il progetto, otto mesi fa, è stata usata questa parola, forse anche un po’ abusata; mi è sembrata allora una parola che potesse avere un senso. Adesso, se devo dire la verità, il rapporto, la questione dell’”anima meccanica” ha preso un po’ il sopravvento, a testimonianza di come si tratti a tutti gli effetti ancora di un esperimento performativo.
R. Anche la questione dell’anima meccanica in sé racchiude un paradosso, al di là del riferimento al cinema d’avanguardia di Duchamp. Un paradosso che si riflette nella trans-medialità, nei mezzi utilizzati, nel linguaggio ibrido che fonde la materialità meccanica prodotta all’interno di una vera e propria officina, alla videoarte, all’architettura: il video, quasi come fosse una scultura, costruisce una relazione geometrica e razionale con lo spazio, come se il teatro manifestasse, esponesse, la sua “anima meccanica”.
L. Non che non mi trovi d’accordo, però per noi questo è naturale: si usano i materiali o gli strumenti che fanno parte di un patrimonio più generale, al di là del nostro teatro. Il riferimento, le questioni che nascevano… Man mano che si studiavano certe questioni, veniva fuori il riferimento alla meccanica del corpo di cui scriveva Cartesio. Spronato a parlare dell’anima, Cartesio anticipa: «Prima di parlare dell’anima, e ne parleremo a parte, bisogna parlare del corpo». Per me c’è una semplice constatazione che la natura, non solo umana, ma anche la natura della materia è bivalente: per me non ha senso che parliamo di meccanica quantistica quando non sappiamo neppure dove camminiamo, nel senso che noi viaggiamo su delle quantità enormi di elettroni e di altri materiali di cui non riusciamo a comprendere nulla. Quindi questa dichiarazione di inconsistenza, cioè questo non sapere dove si è né cosa si è: è questa per me “meccanica anima”. Quasi mi sembra una banalità. Le stesse parole di Cartesio sono estremamente banali: tutti sanno che noi siamo macchinici e siamo anche spirito.
R. Però portare l’attenzione su un concetto così semplice, di cui si tende a smarrire l’essenza, può essere anche una “ri-scoperta”.
L. Indubbiamente, sì.
R. Più di una volta, in passato, ha affermato: «Mi vergogno di meno di essere uomo quando sono attore». E’ un’affermazione che sente ancora propria? Perché?
L. È una sorta di mancanza di sfiducia rispetto al consenso umano. Vedere l’uomo come tratta l’uomo, la non considerazione dell’altro, le guerre, la non vicinanza di se stessi all’altro: questo mi ha sempre portato ad allontanarmi e a vedere che solamente nella scena – che, lo dico, per me rimane l’unico mondo reale e che voglio vivere – esiste l’unico mondo dove riesco e riusciamo a sentire questa sorta di vitalità. Non parlo di un teatro di trance, beninteso, parlo di un luogo nel quale creo delle regole che sono quasi avulse dal mondo, come il fatto dello spettatore, di poterne fare anche a meno. Perché lo spettatore quando viene indicato come due, partner, viene indicato al singolare: il fatto di non poter individuare uno spettatore singolare già mi sta a dire che io non ho relazione con nessuno o solo relazioni casuali. Tornando a quella cosa, sì, ci siamo sentiti molto spesso in una sorta di luogo quasi salvifico. Non voglio che si possa pensare che siamo elitari o che io sia pretenzioso: per me questo è un mondo marcio, dove è raro incontrare delle persone, degli uomini e delle donne per cui possa valere la pena vivere e mi vergogno profondamente delle attività dell’uomo. Non riesco ad accettarle.
R. Allora lo griderebbe ancora più forte! Siamo andati peggiorando…
L. Sì, insomma. Anche se io non lo so se si peggiora.
R. Rispetto alla seconda parte del progetto, Anémic Cinéma, e le proiezioni dei cortometraggi, com’è nata la collaborazione con la Cinemovel Foundation?
L. È partita dalla necessità di lanciare un messaggio in un altro luogo della città. Per una diretta conoscenza, un tecnico che lavora con noi, che ha svolto anche delle mansioni tecniche per la Cinemovel, a suo tempo mi aveva parlato della loro itineranza, del fatto che creano delle carovane, portano il cinema in paesi che quasi non l’hanno mai visto, o altrimenti conducono delle attività connesse alla legalità, carovane contro la mafia, e questo desiderio che loro hanno manifestato – in particolare, nella persona di Nello Ferrieri, che voglio salutare – mi ha fatto scattare l’idea da loro sostenuta di voler portare all’aria aperta una visione. Ho sentito che poteva essere un piacere immaginare di poter proiettare Anémic Cinéma, qualcosa di profondamente astratto. Dal piacere che certe sensazioni che qui nascono e trovano una loro collocazione precisa, un luogo che le accoglie e le difende, potessero anche trovarsi in uno spazio aperto, a disposizione dei passanti, di qualcuno che arrivava lì, casualmente, e si confrontava con questa strana visione astratta delle cose; cose che è rarissimo cogliere. A teatro ci hanno abituato così tanto a godere della narrazione, dello spettacolo, dell’intrattenimento, della struttura dialogica, della necessità di riconoscere addirittura una storia già nota, che viene naturale il desiderio di aprire una nuova porta, uno spiraglio.