Arti Performative Dialoghi

Le “Metamorfosi” di Ovidio nell’occasione del teatro di Roberto Latini

Gertrude Cestiè

Tra i dialoghi più affascinanti e istruttivi vi è di certo quello con chi il teatro lo concepisce come un fare: unazione con un proprio valore intrinseco cui non si può rinunciare. Il teatro è unoccasione. Unoccasione per mettere in circolo qualcosa che ha nellartista il punto di partenza e nellimmaginario dello spettatore il suo punto di arrivo.

Roberto Latini, drammaturgo e attore tra i più attivi del panorama teatrale contemporaneo, ci racconta proprio una delle attuali occasioni di incidenza tra i due punti: il suo lavoro teatrale, METAMORFOSI (di forme mutate in corpi nuovi) di Fortebraccio Teatro – co-prodotto dalla Fondazione Orizzonti e Orizzonti festival di Chiusi – in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 22 maggio, e tratto dallomonimo poema ovidiano.

Uno spettacolo a episodi che si preannuncia come unesperienza della visione e del sentire. Una vera e propria occasione, quindi, per il pubblico, di farsi testimone, in accordo con la propria sensibilità, del potere catartico del teatro.

 

Perché hai scelto un testo come le Metamorfosi di Ovidio? 

Perché è dichiaratamente impossibile metterlo in scena e ho trovato consolante proprio questa impossibilità. È un testo pieno di possibili spettacoli e possibili linee guida. Non ha una drammaturgia che porti direttamente a uno spettacolo, a una forma di rappresentazione, ma deve passare obbligatoriamente invece per un’esplosione e non per quello che si fa invece normalmente che è raccogliere tutto in una specie di imbuto per vedere poi cosa ne viene fuori quando si distillano idee e concetti. Per Metamorfosi è necessario fare il contrario: da quell’imbuto si manda in fuori e poi si va a riguardare quello che ne esce, mantenendo sempre uno sguardo aperto e diverso rispetto a quello che accade normalmente nello spettacolo. Questo è ciò che mi interessava e che mi interessa molto: le possibilità, proprio la forma di spettacolo che ne vien fuori.

 

Quindi una messa in scena per episodi è venuta naturale, data la struttura del testo?

Sì, soprattutto la separazione fra quelli. Abbiamo cominciato da Caos, primo episodio anche in Ovidio che poi passando per tutti i miti li mette in una sorta di ordine cronologico fino ai suoi giorni, fino alla morte di Cesare. Io, invece, partendo da Caos ho deciso di procedere non cronologicamente, senza seguire dunque alcuna traccia che fosse poi un’astrazione. Vado ripetendo che invece sono andato per attrazione verso i miti che mi attraevano per diversi motivi, aspetti. Ho scelto senza obbligarmi in un percorso, ma assecondando una capacità che ha il testo di essere programmato, presentato a episodi singoli.

Poi tutti quanti hanno una comune grammatica per quello che ci riguarda e la cosa che mi ha incuriosito è vedere come applicare questa grammatica ai diversi miti.

 

C’è un episodio che più ti rappresenta, più esemplificativo della tua ricerca?

Dicendone uno mi sembrerebbe di togliere agli altri. In ognuno di quelli scelti c’è un qualcosa che mi ha attratto. Può essere una frase sola, come per l’episodio di Piramo e Tisbe in cui ho pensato di rinunciare anche alla trama a favore di una frase capace, per quello che è, di dire semplicemente, di farsi carico della condizione. Oppure il movimento interno che c’è nella storia di Orfeo ed Euridice è un movimento poetico, come anche la Ninfa Eco, rispetto a Narciso, mi interessa molto da un punto di vista sonoro e quindi non tanto nella rappresentazione del Sé.

 

Trattandosi di Metamorfosi  ti chiedo se e come è mutato il lavoro sul testo e in scena nel corso del tempo.

Sì, continuamente. Anzi non perdo occasione per ringraziare i miei compagni di lavoro poiché la loro eccezionale disponibilità mi permette in effetti di presentare ogni volta eventi unici. Non abbiamo mai fatto lo stesso spettacolo in posti diversi. Ho voluto proprio che lo spettacolo, nella sua incapacità, fosse invece in una capacità fondamentale: quella di metamorfizzarsi, di essere continuamente in un cambiamento. Essere non quello che noi produciamo, il limite del nostro produrre, ma che fosse invece il nostro prodotto capace di essere in costante metamorfosi.

Pirandello, Jarry e, ora, Ovidio. Negli anni hai scelto autori, ma soprattutto testi che lasciano parola allindefinito, anzi lo lasciano manifestare attraverso la forza delle immagini o delle metafore. Quanto è importante dare corpo e voce a queste immagini? E in che senso lo fai per te e per il pubblico? 

Credo che il teatro sia un’occasione. Questa, forse, tra le cose che dico è quella che ripeto più volte. Non ho vocazione rispetto alla narrazione delle storie, non mi interessa diciamo un teatro “didattico” rispetto alla letteratura. Credo invece che l’appuntamento quella sera lì, ogni volta, sia qualcos’altro. Il teatro è un mezzo, non è il fine, è un mezzo per arrivare a qualcosa d’altro ma quel qualcos’altro non ce l’ho io. Non sono io il custode di questo qualcosa. Io sono quello che produce un materiale che spero che poi il pubblico possa processare nell’esperienza teatrale a seconda della propria sensibilità. Ho necessità dunque proprio che ognuno veda qualcosa di diverso e soprattutto che non veda il mio. Perché spero che sia più interessante quello che ognuno mette in circolo rispetto a se stesso di quello sforzo, invece, che mi sembra anche un po’ sprecato, di voler rintracciare le mie suggestioni.

 

A questo proposito come vivi il rapporto tra sperimentazione e tradizione, oggi che spesso la sperimentazione si riduce a una linea conformista?

 Sollecitando questo aspetto qui dell’essere attivi. Diciamo che, senza voler essere banale, purtroppo siamo figli di una partecipazione passiva, di una proposta passiva e invece il teatro in qualche modo propone. Credo che abbia ancora la capacità di proporre una reazione: una reazione che è una riattivazione anzi rispetto al permetterselo. Il teatro insomma è una condizione che c’è, che abbiamo, ma bisogna concedersela e quindi per quanto mi riguarda la propensione è poetica, verso quanto mi attrae, come dicevo prima. In qualche modo è una forma di bellezza o comunque qualcosa che ha a che fare con quest’aspirazione. Non ho necessità di raccontare una storia. Approfittando magari di miti, come in questo caso, che sono famosi – come Orfeo ed Euridice di cui non ho bisogno di raccontare la storia – ho bisogno invece di mettere lo spettatore di fronte a un piccolo movimento che ha a che fare con quel mito.

 

Credi, dunque, nel potere catartico del teatro

Assolutamente sì. E nella capacità che hanno gli spettatori di essere in un’attivazione fondamentale. Non sono mai nella rappresentazione della mia “artisticità”. L’invito non è a vedere quanto siamo artisti noi, ma è tutta un’altra condizione.

Ovidio in questo caso è l’ultima delle occasioni, ma poi all’interno di quello ci sono dei percorsi ormai così in là nel tempo che in qualche modo ci somigliano (o finiamo noi per somigliare al nostro percorso, ma questo è anche secondario). Il teatro è una responsabilità, questo è indubbio, e io la responsabilità che posso prendermi è quella di usare la mia “artisticità” non mandare in scena la mia “artisticità”.



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