Dialoghi. Intervista ad Antonio Moresco
Da Fiaba d’amore alla “nostalgia dell’impossibile”: Antonio Moresco, ospite ad Avellino, si racconta ai microfoni di Scene Contemporanee.
In occasione della presentazione del suo libro Fiaba d’amore, ospitata da HUB (Network delle Culture Contemporanee) e dal Presidio del Libro di Avellino, lo scrittore Antonio Moresco ha risposto alle domande di Francesca Fichera, spingendosi in una conversazione che dalle singole opere è arrivata ad abbracciare considerazioni sulla letteratura e sul mondo.
Viviamo un’epoca di trasformazione, e la letteratura partecipa a questa trasformazione. Viviamo e scriviamo storie frammentate, generi indefiniti e dai confini labili, perché è il mondo che è cambiato. In questo mondo, che è diverso, cos’è che l’ispira? Da cosa trae ispirazione per i suoi libri?
Dalle cose che mi toccano. Dalle persone, soprattutto. Poi queste cose rimandano sempre ad altro, però in genere la fessura, la cruna attraverso cui passo per andare da un’altra parte, è personale, è una ferita personale. Più che da cose che riguardano l’organizzazione del mondo, della società, vengo coinvolto da cose che mi toccano nel profondo e che attraverso la scrittura diventano qualcosa che va da un’altra parte. Io non sono uno che parte da un’idea preconcetta, da una riflessione sulla società, sul mondo: c’è dentro tutto. Vengo tirato per le orecchie sempre da qualcosa di molto intimo come prima spinta per scrivere.
Nei suoi libri c’è come una sorta di nostalgia ‘a ritroso’, da parte di un futuro immaginato nei confronti di un presente che sfugge. Lei, da uomo e da scrittore, che rapporto ha con la nostalgia?
Io non credo di essere una persona nostalgica. La mia vita è stata così difficile, fin da quando ero bambino, che non ho l’idea dei “bei tempi andati”, diciamo così, perché i tempi andati erano stati durissimi. Ho vissuto, fin da quando ero piccolo, delle situazioni che mi hanno reso molto difficile e dolorosa la vita. Quindi non ho un atteggiamento nostalgico sul piano temporale. Può darsi che io abbia nostalgia di qualcosa d’altro, più che del passato. O addirittura di qualcosa che non c’è. Di quello sì, ho nostalgia. Mi interessa l’impossibile più che il passato. Il passato non lo rimpiango, invece desidero l’impossibile. Se si può dire che esista una nostalgia dell’impossibile, io ho nostalgia dell’impossibile.
E questa nostalgia dell’impossibile non produce solitudine?
Molta solitudine. A volte immagini, o t’illudi, o credi di aver trovato situazioni, persone, con le quali si possa osare l’impossibile, ma molto spesso sono delusioni. Però, se finisce [l’impossibile], per quanto mi riguarda finisce anche la vita. Come siamo messi oggi, se non ci fosse la possibilità di far irrompere l’impossibile nella vita, io credo che saremmo perduti. Se io per non sentirmi solo devo andare all’ammasso con un’idea del mondo e della vita che a me fa orrore, preferisco stare solo e continuare a coltivare un sogno, piuttosto che accettare la caduta dei sogni per unirmi agli altri… Quindi metto in conto di essere solo.
A proposito di impossibile: parliamo dell’amore, visto che è protagonista di Fiaba d’amore. In un mondo del genere, l’amore è davvero qualcosa di soltanto immaginabile, di non realizzabile se non in un ‘altrove’?
Credo di aver scritto questa favola non per parlare di un mondo separato ma di questo mondo, del nostro. Non volevo creare un ambiente, una specie di arcadia separata dove potessero accadere le cose: io l’ho fatta accadere nel nostro mondo e anche nella parte più dura, più pesante del nostro mondo, perché è ambientata tra gli straccioni. Ho questa idea inattuale del fatto che possa irrompere l’impossibile, dell’amore inteso in senso forte, non nel senso corrente, che è la quintessenza di quest’impossibile. Quindi questo romanzo è un romanzo sull’impossibile, che assume l’aspetto dell’amore inteso in maniera estrema. La parola “amore” è una delle parole più abusate, come anche “amicizia”, però sono usate in una maniera depotenziata, che non vuol dire niente. Io l’ho voluta riproporre in una maniera radicale, addirittura attraversando la vita e la morte. L’ho intesa come riconoscimento radicale, all’interno della vita, di un qualcosa che ti porta in un altrove. Che lì è rappresentato in queste immaginarie città, “la città dei vivi” e “la città dei morti”, e nei due personaggi che devono superare la stessa prova per incontrarsi. Perché anche lei a un certo punto deve percorrere la stessa strada, dura e difficile, estrema, percorsa da lui, affinché si riescano a incontrare. A me interessava parlare dell’amore in questa maniera qua, del resto non me ne fregava niente.
Quasi un amore inteso come carità, compassione totale?
Non solo. Perché quello rientrerebbe nelle opere pie, e invece no. Volevo parlare dell’amore nel senso della grandezza. Quando lei dice “Cerco la grandezza. Io sono nata per fare qualcosa di grande”… È l’invenzione di qualcosa di grande, che non contrasta la forza di gravità che domina del mondo e va verso una dimensione che è addirittura estranea o inattuale rispetto a come il nostro mondo è organizzato. Non ho inteso fare una figura di donna angelicata che scende sulla Terra: difatti il personaggio viene spogliato di questi suoi attributi. Lei cade, ripercorre la strada di lui, proprio perché ne volevo fare un personaggio vero, un personaggio vivo, altrettanto vero e vivo com’è lui. L’ho spogliata della sua angelicità e le ho dato dei caratteri terreni.
Però forse in più c’è la disposizione a soffrire completamente per l’altro.
Quello sì, perché a volte devi attraversare anche questa cruna della sofferenza, del dolore. Perché se tu non ti accontenti di poco può darsi che debba attraversare delle prove, delle sofferenze. La nostra società non è costruita perché possa vincere quest’impossibile, questa grandezza: è fatta in modo tale che la gente cerchi di vivere come meglio può, di posizionarsi bene nel mondo. Perciò c’è un’enfasi anche drammatica in questa storia, perché il mondo non è fatto per questo. Si ammantano di parole – amore, amicizia – che non c’entrano niente: ciò che domina il nostro mondo è l’economia, è il denaro, è la ricchezza. Infatti io ho messo dei personaggi che sono l’antitesi di tutto questo, dei miserabili. Perché solo da lì si può parlare d’amore.
A proposito, invece, di etichette: ultimamente è stata pubblicata un’infografica sul blog del critico Franco Cordelli, dove è stato messo accanto a Giuseppe Genna e Aldo Nove come “vitalista”. È d’accordo? E, più in generale, come vede etichette e classificazioni?
Io sono inorridito dalle etichette. Quando una persona, uno scrittore, si può etichettare c’è qualcosa che non va. Uno scrittore è per sua natura inclassificabile, o non è uno scrittore. Io aborro queste cose qua: sono dei giochi culturali, o culturalistici per meglio dire, che interessano i giornali perché muovano la chiacchiera delle persone che si schierano, ma non hanno nessuna misura di verità. Quello di cui stai parlando è un esempio lampante di questo. Ci sono delle divisioni del tutto arbitrarie, come credo, visto che è intelligente, si renda conto la stessa persona che l’ha fatto. Per quanto mi riguarda, sono anni che c’è questa vulgata che mi definisce uno scrittore vitalistico: io non so neanche cosa voglia dire. Se uno che non è morto, non è un cadavere, è per questo un vitalistico, allora basti dire che sono uno scrittore vivo. Vitalistico è già una stratificazione intellettuale. Come scrittore, non accetto di essere un pretino che se ne sta lì dentro, solo, con la papalina e i mezzi guanti: io mi considero uno scrittore che sta di fronte alla vita a tutto campo, ma gli scrittori sono sempre stati così, anche nell’Ottocento. Anche Tolstoj, Dostoevskij, erano scrittori che prendevano posizione nella vita, nel mondo, e questo non gli impediva di creare delle opere grandi. Invece adesso è invalso l’uso secondo cui uno scrittore se ha un minimo di interessi umani non è un bravo scrittore. Io me la rido di queste robe qua. Poi basta scorrere l’elenco delle persone insieme alle quali sono: siam tutti diversissimi gli uni dagli altri. Senza mancare di rispetto a nessuno, con le persone messe in elenco insieme a me credo di non avere niente a che fare.
Quindi è un dibattito illusorio?
Be’, fai dibattito sul nulla. È schiuma. Io non mi riconosco in questo, non capisco neanche cosa vogliano dire. Sono cose superficiali, fatte solo per colpire.
Riprendendo il discorso a monte per concluderlo: leggendo libri come La lucina e Fiaba d’amore può venire in mente (a me è successo) una frase di Maurice Maeterlinck che diceva: “i vivi sono i morti in vacanza”. Quanto c’è realmente di questo in quello che scrive?
Io descrivo la vita degli uomini. Che però è simile alla morte. La città dei morti è molto simile alla città dei vivi, no? Certe volte mi sembra che le persone vivano come dei morti e non se ne accorgano. Credono di vivere come dei vivi ma hanno rinunciato a tante cose che rendono la vita degna di essere vissuta, e si comportano come dei morti. Mi sono sentito libero di attraversare questi due regni… “I vivi sono i morti in vacanza” è una frase che dice della verità, solo che non ne è neanche una vacanza allegra: molto spesso è una vacanza tristanzuola, un po’ spenta, un po’ squallida. Da questa roba forse può uscire fuori una visione vitalista! Se sei morto allora non sei vitalista, e poiché hanno deciso che la letteratura è il regno dei morti, se ti sta stretto questo regno allora dicono che sei un pericoloso vitalista. Che lo pensino pure.
Questo c’entra un poco con quanto si diceva prima a proposito delle classificazioni, di come certi manuali, introducendo -ismi e correnti, hanno costruito una vera e propria “mentalità a caselle”.
Quella è la morte. Quello è l’equivalente dei loculi del cimitero dove ci sono i vari settori e i morticini con i loro nomi. Loro sono l’equivalente dei custodi del cimitero, è un’idea cimiteriale della letteratura che loro hanno perché, evidentemente, la considerano morta. E la considerano morta perché sono morti loro, e allora non accettano di pensare che ci sono dei vivi perché, se ci sono, si vede che loro sono i morti. Questo il regno del nulla: la letteratura non c’entra niente con le semplificazioni e altre cose del genere, la letteratura è irriducibile.