Dialoghi. Intervista a Sonia Bergamasco
Ripercorriamo la carriera di Sonia Bergamasco in un’intervista a partire dal Salmo della gioventù in scena a Napoli a Galleria Toledo fino agli esordi teatrali e cinematografici.
Far vivere la poesia a teatro: strutturarla, destrutturarla per coglierne voci, colori, sfumature e suoni segreti. Questo è il lavoro che si è prefissa l’attrice Sonia Bergamasco nel suo concerto-spettacolo Salmo della Gioventù, che raccoglie estratti dall’opera poetica di Amelia Rosselli, andato in scena a Galleria Toledo dal 17 al 19 Aprile 2015 a Napoli. Una sfida, quella di portare la poesia a teatro, dandole un corpo e una voce. Non un semplice reading, ma uno sviscerarne la materia poetica: un tema che è stato anche al centro degli incontri di studio sulla lettura poetica in voce, tenuto dalla stessa Bergamasco a Galleria Toledo.
Un lavoro che deriva dall’originale commistione della sua formazione musicale e teatrale, che l’ha condotta verso tutte le possibilità espressive dell’arte attoriale. Nella carriera della Bergamasco c’è spazio per il teatro, tra i suoi maestri Quirino Principe, Carmelo Bene e Gabriella Bartolomei, ma anche per il cinema, dove forte e intensa è stata l’esperienza con Giuseppe Bertolucci. E ancora indimenticabile la sua Giulia ne La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana e l’esperienza televisiva in fiction di successo come Tutti pazzi per amore e Una grande famiglia.
Chiedo a Sonia di ripercorrere il suo percorso artistico, di tirare le fila e le emozioni che l’hanno portata a scegliere questa magica strada tra il palco e la macchina da presa, facendone una delle attrici più originali e interessanti del panorama artistico italiano.
A teatro porti avanti una ricerca costante tra musica, poesia e parola, un percorso che oggi seguono in pochi e il concerto spettacolo Salmo della gioventù ne è un forte esempio. Quando è nata questa esigenza?
Ho sempre letto poesia, una lettura e una frequentazione che è venuta prima di tutto il resto. È stato facile pensare che per portarla al pubblico dovesse essere detta, scavando proprio nella materia sonora della scrittura poetica: è nato così un dialogo musicale con strumenti e suoni, propriamente interno alla poesia, che grazie alla musica si arricchisce e diventa più fruibile. È un lavoro che nasce dopo molti anni fatti di prove, esperimenti e studi insieme ad amici musicisti, compositori, proprio sulla scrittura poetica. In realtà è una cosa che tanti hanno fatto: in particolare, gli anni 60’-70’ sono stati una fucina per l’esperimento poetico a teatro, poi però ci si è ripiegati presto sulla poesia letta, su una poesia vista sulla carta e nella migliore delle ipotesi riferita. Ma non è quello che mi piace per la poesia: cerco di dare un corpo alla poesia, di farla viaggiare e farla arrivare dove può.
Come e perché la tua attenzione è caduta proprio su Amelia Rosselli?
Amelia Rosselli sicuramente non è nell’hit parade del pop poetico, ne sono consapevole! Continuo a frequentarla, ad amarla, a desiderare che venga frequentata e conosciuta proprio perché la sua scrittura , da cui ho tratto questo concerto-spettacolo insieme al musicista Rodolfo Rossi, contiene degli snodi e delle pietre preziose che attingono alle radici del fare poesia e alle radici del fare teatro. La parola si intinge proprio nella densità del ritmo del suono, riconducendo la poesia al suo antico ruolo di esperimento primario dell’uomo. Pur risultando chiara a pochi da un punto di vista narrativo, e la poesia d’altronde non si può mai porre questo problema, la poesia di Amelia Rosselli merita un ascolto musicale, che a teatro è possibile e bello.
Quando hai sentito il bisogno di lavorare in maniera più approfondita sul rapporto tra la voce e il corpo a teatro?
La musica è il filo rosso. Appena ho iniziato il percorso teatrale ho capito che la lingua della musica era la mia e che non l’avrei mai abbandonata. L’incontro con Carmelo Bene mi ha chiarito ulteriormente le idee: ho affrontato più da un punto di vista vocale che strumentale il rapporto con la musica. La voce allora è diventata teatro, voce-teatro e voce-corpo. È avvenuto naturalmente, un percorso legato al teatro, pur non essendolo così tanto nella consuetudine teatrale e culturale.
Quando ti sei accostata alla musica? Come è diventata parte integrante del tuo percorso artistico?
L’incontro con la musica non è stata una mia decisione. Pur non essendo presente nessun musicista in famiglia, si è insistito molto perché si studiasse musica, così ho iniziato verso i cinque anni a studiare pianoforte, e dai dieci anni in Conservatorio a Milano, dove mi sono diplomata. Quando dopo il diploma ho iniziato a chiedermi cosa volessi fare, mi sono imbattuta per caso nel bando della Nuova Scuola del Piccolo di Milano. Senza alcuna esperienza di palcoscenico, se non quella esclusivamente musicale, ho fatto i provini preparandomi da sola, basandomi sulle tante letture che avevo fatto. Leggevo tantissimo, principalmente poesia, ero una lettrice onnivora e cannibalesca: scoprivo autori, voci, cose.
E quando sei entrata alla Scuola del Piccolo, quali evoluzioni e consapevolezze hai maturato?
Credevo di aver chiuso con la musica, si era creata anche una forma di rigetto. Poi mi sono resa conto che ero entrata lì non tanto grazie ad una lingua teatrale quanto musicale: i testi che avevo presentato li avevo solfeggiati. La mia lingua prima e originaria era quella musicale: le parole le avevo presentate da musicista, e fu quello ad affascinare. Con il tempo poi, ho preso consapevolezza del fatto che desideravo fare quello che stavo facendo, l’attrice, e che quello era il mio modo di farlo, ma che per possederlo veramente dovevo anche essere in grado di saper fare anche diversamente. Ho sviluppato così la tecnica e ho preso consapevolezza di quelli che erano i miei mezzi espressivi. Era necessario guardarmi e la mia necessità di fare teatro si riconduceva alla ragione profonda di scoprirmi: questo mi ha portata ad intraprendere un mestiere così affascinante, così faticoso, così ingrato, così frustrante ma così bello.
Hai avuto la possibilità e la fortuna di poter lavorare con un maestro come Carmelo Bene. Quale ricordo hai di lui?
Per me non è un santino, e gli si fa un cattivo servizio ricordandolo come tale. Era una persona così difficile, scomoda, intransigente, divertente e straordinaria, è difficile parlarne come di un maestro: è un grande artista che ho avuto la fortuna di incontrare e di seguire per una breve parte del mio percorso. Sono grata alla sorte di questo. L’ho trovato sempre molto simpatico, l’ho odiato, amato molto, mi ha divertito moltissimo e gli sono grata per tutto quello che ha dato a me e al teatro, ma l’avrebbe fatto anche solo per se stesso.
Come è stato il tuo primo impatto con la macchina da presa? E la tua prima esperienza cinematografica?
Goffo, molto goffo. Il primo impatto con il cinema è stato con Silvio Soldini. Era venuto a vedermi a teatro, mentre ero in scena con La disputa di Marivaux, e mi chiese di fare un provino per un cortometraggio (D’estate). Fu la mia prima esperienza: portai tutto il mio teatro dentro ad un provino di cinema, con Silvio Soldini, re del gesto minimo e dei silenzi. Lui mi ha accompagnato con delicatezza e divertimento attraverso un linguaggio completamente diverso. Un gioco bellissimo che mi piace sempre ritrovare.
Cinema o teatro, da attrice hai una preferenza?
Cinema non ne ho fatto molto, ma l’ho fatto molto bene. Cinema ma anche televisione. A me piace molto e probabilmente mi piacerebbe anche farlo di più con una storia giusta, un personaggio giusto. Il teatro lo continuo e lo continuerò a fare, perché è una necessità. Il cinema è giovane, un bimbo. Eleonora Duse, di cui sappiamo così tanto ma anche così poco perché il teatro alla sua epoca non lasciava traccia, ha visto nascere i primi gesti del cinema. Lei ha capito subito che era una macchina delle meraviglie, ha colto subito le potenzialità di questo nuovo modo espressivo, ha desiderato entrarci da subito. Cenere è un piccolo frammento ma anche una grande testimonianza che se avesse potuto, avrebbe senz’altro continuato a frequentarlo.
Indimenticabile la tua Giulia ne La meglio gioventù: che ricordo hai del film di Marco Tullio Giordana e del tuo personaggio?
Quando ci lavorammo non immaginavamo che potesse avere un seguito e una fortuna così grande: è stata bellissima per noi la lavorazione, eravamo un gruppo di persone che si conoscevano bene, e questo ci ha sempre dato una certa spinta, guidati da Marco Tullio Giordana al meglio. Questo racconto, nato per la televisione, è arrivato prima al cinema debuttando a Cannes e da lì è esploso: ci fermavano per le strade, e non solo in Italia. Un caso speciale per un film italiano con quella storia e con quella durata. È stata una sorpresa bellissima per tutti.
Giulia era il personaggio che volevo fare. Marco Tullio Giordana chiedendomi di interpretarlo, ha riscritto e adattato la storia di Giulia come un sarto sulle mie misure, facendo suonare a Giulia il pianoforte, creando nel rapporto con la musica il nodo drammatico indispensabile per comprendere il futuro del personaggio.
Cosa consiglieresti oggi a chi desidera fare l’attore?
Di farlo solo se non ne può fare a meno. Deve essere una necessità assoluta, e possibilmente non una necessità di mettersi in mostra ma di scoprirsi. Sono importanti gli incontri in questo lavoro, quindi ci vuole anche una buona dose di fortuna: non mi riferisco agli incontri che ti possono aiutare a lavorare, ma proprio a incontri illuminanti con persone che ti chiariscano le idee su dove sei adesso e dove potresti andare. C’è un margine di fortuna che nel nostro lavoro è sempre molto presente, e prescinde dalla qualità del tuo lavoro purtroppo: ci sono attori con carriere brillantissime, e ti chiedi perché lui e invece non un altro.
C’è un film o un regista a cui sei particolarmente legata?
In questo periodo penso molto al film Il cacciatore di Michael Cimino, un film indimenticabile che andrebbe visto e rivisto. Ci sono tanti film che amo alla follia: ho rivisto recentemente Bright Stars di Jane Campion. Ecco, lì anche il cinema riesce a dire la poesia, senza creare un santino, senza fare biografia o agiografia, dice la poesia attraverso lo sguardo.
C’è invece, nell’arco della tua carriera d’attrice, un regista a cui ti senti fortemente legata?
Giuseppe Bertolucci. È stato un amico, un maestro, un’artista con cui ho condiviso una bella parte di cammino, sia a teatro, ho fatto con lui Karénina, sia al cinema debuttando nel corto L’amore probabilmente. Prossimamente uscirà un cofanetto a lui dedicato, in occasione di una settimana dedicata a lui a Roma, dal titolo Bertolucci ti voglio bene. È una bella occasione per rivedere i suoi film, e in quell’occasione si faranno anche molti suoi monologhi, in cui è sempre stato uno specialista. In quell’occasione riporterò in scena anche Karénina al Teatro India di Roma.