Cinema

Dialoghi: intervista a Qaushiq Mukherjee

Fausto Vernazzani

Intervista esclusiva al regista indiano Q, reduce dal Festival del Cinema di Roma dove ha presentato “Il regno delle carte”

Qaushiq Mukherjee, meglio conosciuto con il nome d’arte di Q, è un rapper e musicista del Bengali presentatosi nella scena internazionale cinematografica con il suo precedente successo critico: Gandu. Dopo la fortuna avuta nei Festival negli anni passati è approdato al Festival Internazionale del Film di Roma con il suo adattamento de Il regno delle carte (qui la recensione) dello scrittore Premio Nobel (1913) Tagore, sconvolgendo il classico stile indiano per prendere spunti sia dall’occidente che dall’Oriente, in particolare con lo sfruttamento dello stile manga e kabuki, unendo passato e presente in un unico insieme di stilemi cinematografici. Dopo essere stati impressionati dal suo Tasher Desh (titolo originale dell’opera), sfortunatamente non tra i vincitori della sezione cinemaXXI dove è stato inserito, lo abbiamo incontrato nel bar dell’Auditorium per conoscerlo meglio.

Sono stato molto colpito dallo stile, anzi, dagli stili utilizzati per la realizzazione di questo film. Per iniziare vorrebbe parlarci del suo approccio alla regia?

Non credo di essere un filmmaker. Penso che il Cinema sia morto, dopo cento e più anni ormai non c’è molto da dire né da fare. Non mi considero un filmmaker, penso più di essere un Visual DJ che guarda al cinema come ad una performance musicale e, come un DJ, estraggo frammenti. Estraggo frammenti da tutto e cerco di portarli insieme a seguire il mio ritmo. Cerco di dare alla gente un’esperienza per un certo periodo di tempo, insomma come avete notato, per circa oltre 100 minuti, un DJ set di 100 minuti. Cerco di guardare alla cosa in questo modo…

Non vuole essere il classico filmmaker, vuole tentare di essere qualcosa di differente e c’è riuscito. Per questo motivo ha abbattuto le barriere, lo stesso esatto tema di cui si parla nella trama del film. Ha scelto questo preciso testo per rappresentare ciò che vuole essere?

Assolutamente. Giusto per darti qualche riferimento al testo originale: è un dramma di oltre cento anni d’età scritto da Tagore, Rabindranath Tagore, un poeta nobile della mia stessa terra, il Bengali. E’ un poeta molto conosciuto, venerato come un Dio. Quindi sto lavorando con il testo d’un Dio e questo mi mette un po’ troppo in evidenza perché la gente mi vede in genere come una sorta di artista controverso. Tutto ciò rende la trasposizione del lavoro di Dio ancor più difficile! Allo stesso tempo, pur non essendo un fan di Tagore (la sua opera non mi piace, lui era un romantico ed io non lo sono affatto), capisco il messaggio universale che stava cercando di far passare attraverso i versi della sua opera: abbattere le barriere, come hai detto tu stesso, non a caso l’ultima canzone è proprio a proposito di questo. E per me è così importante in questo momento, per come vedo il mondo oggi, ho capito che la società intera ha un gran bisogno di un messaggio così, di una nuova rivoluzione!

Dato che per lei il cinema è morto e qualcosa di nuovo deve essere fatto, cosa pensa del suo stesso film? E’ cinema o solo qualcosa che ne sfrutta il potere?

Direi la seconda. Mi affido anche alla musica, quasi tutti i miei film sono musical e sono quel che chiamo “idee a 360 gradi”, non sono semplicemente una sceneggiatura, e dunque cerco di confrontarmi con altre persone. Questo è un modo, la musica è un altro. Ci sono delle performance che vedrete più avanti, sono delle estensioni al film che avete visto, piccoli videoclip che non sono stati usati per questa pellicola. Ci sono altre canzoni che non abbiamo utilizzato e che sfrutteremo in modo diverso. Credo che il mio medium sia il Visuale, ma non necessariamente il Cinema, per come il Cinema viene normalmente percepito.

A proposito dei diversi modi di avvicinarsi al cinema, in Tasher Desh si ha l’impressione che alcune scene siano state improvvisate, altre, invece, pianificate dall’inizio alla fine. E’ soltanto un’impressione?

In realtà molti dei movimenti sono già all’interno del testo originale. Il segmento in bianco e nero è completamente improvvisato. Allo stesso tempo, all’interno di ciò che era già stato scritto, abbiamo improvvisato moltissimo perché non mi piace bloccare gli attori in degli spazi, non credo nelle zone di ripresa o negli assi della camera, dunque tutto è molto fluido, abbiamo improvvisato molto con le riprese. Gli attori improvvisavano più con i loro movimenti che con le loro battute. Ma nella parte in bianco e nero, tutto è improvvisato.

Il personaggio protagonista di questo segmento, l’uomo che urla ai treni, dovrebbe rappresentare noi spettatori?

Sì, siamo noi. E’ il cantastorie incastrato in una specie di realtà che è vissuta da tutti noi. Ognuno di noi è imprigionato nella sua storia. Crediamo fortemente in quella che sappiamo essere la nostra storia, ma in realtà è un’altra. Non è la realtà. Se decidi di guardarla da un altro punto di vista, dall’interno di un’altra prigione, vedrai che entrerai in una realtà completamente differente.

Dunque come ha lavorato con gli attori?

Sono difficili, ecco perché lavoro con pochissime persone Solitamente i miei attori principali sono persone che io conosco e che conoscono me veramente bene, persone con cui ho già avuto a che fare per altri lavori e non sono spaventati dal mio approccio alla produzione. Questo in particolare [Il regno delle carte n.d.r.] è stato molto complicato perché vi erano molti attori  molti non mi conoscevano e non avevano idea di come io avessi intenzione di lavorare. Ecco perché preferisco lasciarli in uno stato di confusione, li lascio all’oscuro di molte cose e quando vengono presi per la parte le difficoltà non sono finite perché devono ancora incontrarmi: devono cambiare il loro aspetto, il loro spazio e questo rendeva il tutto abbastanza bizzarro ed imbarazzante [si riferisce ai costumi in stile manga/kabuki dei personaggi del Regno delle Carte n.d.r.]. Hanno anfibi, stivali, maschere attraverso cui non possono vedere bene. Ho fatto in modo che per loro fosse un lavoro duro che li confondesse. E lavoravamo per di più con non-attori.

L’opera di Tagore è un dramma molto popolare in Bengali, per iniziare i lavori al film si è preparato seguendo le varie rappresentazioni teatrali?

Certamente. Credo sia uno dei drammi più popolari e profondi al mondo, di sicuro all’interno della categoria delle produzioni amatoriali. Sono cresciuto con questo testo, in Bengali la gente o ha recitato in una sua produzione, cantato una canzone o partecipato alla recita scolastica o del college.

All’inizio del film c’è il protagonista del segmento in bianco e nero che sta cercando l’opera, ma non la danno in nessun teatro e non riesce a trovarla. C’è un significato particolare dietro questa ricerca a vuoto, vista la popolarità dell’opera?

E’ un’idea molto astratta. Alla base è quanto si vede nella prima metà della vita filmica del cantastorie chiuso in uno spazio rappresentato da una stazione ferroviaria. I treni vanno e vengono nella sua mente. Sta per iniziare un viaggio, ma son tutti bloccati in un solo luogo. Dunque, quando il principe è liberato e lascia il suo palazzo, l’uomo che vive nella stazione viaggia in realtà verso l’edificio dove il principe viveva, luogo che in realtà non vediamo mai alla luce del giorno. Questa volta lo si vedrà nella realtà, al sole: una rovina e non una prigione. Cambia dall’uno all’altro. Ciò che conta è come si guarda alle cose, la prigione di qualcuno può essere il paradiso per l’altra.

Questo può spiegare come mai ha deciso di girare ogni segmento con uno stile diverso, una luce diversa, per mostrare le differenze di punti di vista.

Sì, è stata una decisione ben precisa.

Come crede che il pubblico reagirà al suo film?

Dipende di quale pubblico stiamo parlando. Non è lo stile classico indiano, ma gli indiani si rapporteranno alla pellicola già solo per il fatto che conoscono la storia e sanno come affrontare la struttura del testo. Per il pubblico Europeo sarà più lo stile visivo ad intrigarlo. Non è davvero un racconto, in fondo, Tagore era un poeta e Il regno delle carte è un poema. Non è un romanzo, con una precisa linea narrativa. E’ strutturato come un poema, ma per coloro che non hanno familiarità con l’opera, di sicuro ci sarà più interesse per l’aspetto e per il design più che per le vicende dei protagonisti. O almeno sarà così all’inizio, finché non coglieranno il valore personale che acquisirà il film.


E’ stato contattato dalla produttrice Celine Loop dopo il successo del suo precedente film, Gandu, o l’incontro è avvenuto in qualche altra occasione?

A dirla tutta, lavoriamo insieme. Abbiamo una compagnia nostra, lei venne a lavorare nell’ambito della produzione cinematografica per il precedente Gandu che ebbe un discreto successo. E’ un’amica, vive in Kalkata (Calcutta n.d.r.), è specializzata nella legge dei diritti d’autore. Infatti, quando ci incontrammo, fu proprio per una questione di copyright, da quel momento cominciò ad interessarsi sempre di più al mondo dei film e, ad un certo punto, dopo un anno, abbandonò il suo lavoro legale per lavorare full time come produttrice insieme a me. In poche parole, produciamo film insieme!

Dobbiamo quindi prepararci a vedere qualche altro lavoro nato da questa collaborazione?

SI! Stiamo preparando molte cose insieme, vogliamo produrre il più contenuti possibili come Il regno delle carte, vogliamo entrare nella mente degli Indiani per farli adattare ad un nuovo stile che non coincide con i principi del mercato. In India si girano film solo per denaro, solo produzioni commerciali, per questo ci battiamo duramente per portare ancora una volta in auge il cinema indipendente, coinvolgendo anche altre compagnie, ma poche si stanno davvero dando da fare. Cerchiamo tuttavia di lavorare insieme, realizzare qualche co-produzione per poter continuare a girare film come Tasher Desh!

Posso supporre che non vi occuperete solo di film?

Mi occupo di molte cose. Sono un musicista, un rapper, ho una band chiamata Gandu, che tradotto significa Gli Stronzi, e siamo sempre in giro per qualche tour. Ultimamente siamo stati ad Oslo per un Festival (Oslo World Music Festival n.d.r.). Quest’anno ci prepariamo ad essere ancora più presenti! Scrivo anche, faccio il mio dovere dietro la macchina da presa, sono un montatore ed, infine, sono un produttore. Se dovessi dire qual è il mio lavoro principale, direi il Produttore.

Come produttore prevede di aiutare altri filmmaker a girare i propri film?

Lo abbiamo già fatto [insieme a Celine Loop n.d.r.]. Il prossimo anno usciamo con due film. Uno sarà un horror ambientato a Calcutta, il secondo sarà a tema sociale: una donna che commette infanticidi seriali, una storia molto sanguinosa e brutale di una donna che ammazza bambini. Entrambi diretti da altre persone e me solo in veste di produttore.

In qualità di produttore che sostiene che il cinema sia morto, cosa chiede di fare ai registi al suo servizio?

Penso che la cosa principale sarebbe quella di spingersi oltre le normali forme. Non essere classici, perché quello è ciò che chiamo cinema. Di essere capaci di capire, di apprezzare ed abbracciare nuove forme di espressione nei media che possano aiutarli a girare il loro film. Saranno girati per intero con delle DSLR, come anche Tasher Desh. Le usiamo perché le abbiamo (ovviamente), perché sono economiche e perché puoi farci davvero un film. Non c’è bisogno di nient’altro. Puoi chiamarlo un approccio à la Dogma (il Dogma95 di Vinterberg e Lars Von Trier n.d.r.). Iniziai a far film seguendo le idee del dogma, per anni ho preso la mia ispirazione da quei dictat. Credo che l’idea di far film si stia spostando da quella di Cinema, bisogna esplorare nuovi modi di raccontare storie. Sono piuttosto fascista su quest’idea, cerco sempre di tirare tutti con me!



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