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Intervista a Marta Gilmore, regista di “Friendly Feuer”, polifonia di una generazione silente

Renata Savo

Torna in scena a Roma, dopo le tre serate di fine aprile al Teatro India (dove ha registrato il tutto esaurito), il collettivo Isola Teatro con Friendly Feuer – una polifonia europea per la regia di Marta Gilmore (qui la recensione dello spettacolo), che affronta il tema della primo conflitto mondiale dal punto di vista di chi avrebbe voluto sottrarsi all’arruolamento ed esprimere della guerra il suo rifiuto.

Abbiamo già avuto occasione, tempo fa, di incontrare Marta Gilmore per conoscere le attività divulgative e formative portate avanti dal suo collettivo, in particolare il workshop IL PERIMETRO DEL VERSO condotto all’Angelo Mai, parte di un progetto editoriale più ampio a cura di Paola Bono sul teatro “Non normale, non rassicurante” della drammaturga britannica Caryl Churcill.

Spinti dalla curiosità di vedere Isola Teatro “in azione”, abbiamo visto Friendly Feuer e ascoltato Marta Gilmore una seconda volta, per parlarci di questo lavoro che il pubblico di Roma e dintorni avrà la possibilità di vedere (o anche rivedere, perché no?) allo Strike S.p.A il 27 maggio.

 

Partiamo dal titolo, e soprattutto, dal sottotitolo. In che senso si può parlare di “polifonia” in questo spettacolo?

In primo luogo a partire dalle fonti di questo lavoro. Parlare della Grande Guerra è come dire tutto e niente. Più di una generazione, milioni di persone sono state coinvolte nel conflitto. Quasi tutte hanno scritto qualcosa a casa, nei lunghissimi anni di guerra. Magari erano analfabeti, o semi-analfabeti, magari non avrebbero mai preso in mano una matita, se non fosse stato per la guerra. E dato che la vita di trincea prevedeva lunghi periodi di stallo alternati a momenti di scontro durissimo, scrivevano tutti. C’è poi una generazione di soldati più colti, di studenti – nel caso italiano quasi tutti erano ufficiali di complemento – che si sono presi la briga in modi diversi di lasciare una testimonianza diretta di quella guerra, come Emilio Lussu o Erich Maria Remarque (tanto per fare i nomi più noti); e poi ci sono i documenti d’archivio che riguardano processi, cronache, il dibattito psichiatrico in materia di nevrosi di guerra, ecco solo ad elencare la gamma di fonti possibili non si finisce più.

Il nostro lavoro nasce da – e tenta di dialogare con – questa pluralità di voci, lingue, dialetti, linguaggi, da quello dei soldati/contadini, a quello di psichiatri e poeti, senza risolverle in un unico motivo, o ricondurle ad un’unica narrazione. Uno spettacolo per frammenti, per voci sole, che magari coesistono anche nello stesso spazio, in cui persino il linguaggio scenico muta, si sposta di frammento in frammento.

È un tentativo di affrontare la solitudine davanti alla cosiddetta “officina della guerra”.

Nello spettacolo ci occupiamo del primo conflitto mondiale dal punto di vista di chi tentava di sottrarsi: disertori, soldati affetti da nevrosi di guerra, soldati che attuavano tregue informali con il nemico, ecc. … Ecco che tutti questi comportamenti, dal più disperato e inconsapevole, dal più autolesionista al più sfrontato, esprimevano comunque un rifiuto radicale della guerra. Eppure questo rifiuto era vissuto su un piano individuale, non diventava, nella maggior parte dei casi, un fatto politico, una rivolta, soprattutto nei primi anni Ogni voce nella sua solitudine esprime questo rifiuto, e dialoga con le altre voci per sottili richiami, per assonanze, dissonanze, perché la condizione vissuta è tragicamente la stessa anche se non si intona una sinfonia comune.

Qual è il rapporto tra l’evento teatrale e il processo di scrittura?

Non c’è una legge, direi. Per noi c’è un po’ un cardine attorno al quale si organizza il lavoro. Questo vale anche quando si mette in scena un testo già scritto, di cui magari non si modifica neanche una virgola. In quel caso si tratta di trovare il punto di incontro, ma anche di messa in crisi, fra l’attore e il testo, per trovare un’urgenza soggettiva che rende quelle parole vive, necessarie, per la persona che si trova a dirle.

Quando si tratta di un testo originale, che nasce con lo spettacolo, come nel caso di Friendly Feuer, allora devi trovarle quelle parole, crearle, e poi di nuovo trovare il modo per poterle ogni volta ri-attualizzare. Diciamo che c’è una dinamica molto fluida fra il lavoro che faccio io – di studio e ricerca da una parte e di scrittura, ri-scrittura, del testo per gli attori dall’altra – e il lavoro che si costruisce insieme in sala prove, facendo nascere queste parole o in altri casi usandole come nutrimento per il percorso che sta facendo il performer, ripetendo questo movimento più volte, in un dialogo molto concreto. Il nostro lavoro drammaturgico non è un montaggio di materiale improvvisato in sala prove e poi “risistemato”, c’è anche molta scrittura in senso tradizionale. E poi c’è il ruolo del performer che è anche creatore del proprio testo e che deve ripercorrerlo passo dopo passo nella condivisione con il pubblico. E lì il testo può anche essere tradito, in parte, ri-creato. Ma con rigore, come fosse una partitura musicale in una jam session. Si gioca, si improvvisa certo, ma nella riscoperta nota dopo nota, di quella composizione lì e nell’ascolto, qui ed ora, degli altri che suonano con me, pubblico incluso.

Chi sono i personaggi dello spettacolo?

Durante lo spettacolo entriamo e usciamo da diverse storie, raccontandole, incarnandole, evocandole. È difficile parlare di personaggi. Eppure ognuno dei cinque performer in scena ha un suo filo drammaturgico, sottile, segreto. Sono quelle che noi abbiamo chiamato “figure”: il nemico, il reduce, l’eroe, il caduto, il testimone. Il disertore non c’è, perché tutte le figure fanno i conti con la ricerca di un modo per sottrarsi alla guerra, sia perché tentano in prima persona di farlo, sia perché a loro spetta il compito di reprimere, o di giudicare, o di raccontare, questi tentativi. Tutte in qualche modo tentano al contempo di sfuggire al destino cui la propria “figura” li condanna. Nessuno riesce a scampare all’etichetta che la storia gli ha impresso addosso, nessuno riesce a sottrarsi alla prima guerra moderna.

Come vedi le figure sono tutte declinate al maschile, ma siamo tre uomini e due donne. Data la natura della lingua italiana, dato che la guerra è “una cosa di uomini” questi percorsi drammaturgici sono declinati così. Ma siamo lì a portare la storia, uomini e donne, performer, ibridi forse. E le figure che incarniamo sono il punto di incontro fra noi e la storia, quella zona di “messa in crisi” di cui ti parlavo all’inizio. Non ti dico chi è chi, ma secondo me guardando lo spettacolo si capisce subito.

 

In qualche misura lo spettacolo si potrebbe accostare al genere documentario?

Non ci avevo mai pensato e non saprei. Amo molto i documentari anche se non so se Friendly Feuer sia un lavoro assimilabile ad un genere. Abbiamo cercato di avere un linguaggio scenico asciutto, anti-retorico e anche non univoco, polimorfo oltre che polifonico. Senza dubbio ci muoviamo fra “dentro” e “fuori” la storia, a volte sembriamo guardarla come da una distanza. È un pudore, il nostro. Un massacro insensato di quella portata non si può rappresentare. Si può tentare forse di restituire qualcosa, mettendosi in relazione con quella generazione che la macchina della guerra, con la sua violenza, la propaganda, la mistificazione, l’abuso, ha travolto, nel corpo e nella mente. Cercare in quella storia gli aspetti più rimossi, dolorosi e problematici anche oggi, che ci interrogano, ci chiamano in causa.

 

Friendly Feuer affronta degli aspetti poco battuti della Grande Guerra. Come mai, secondo te, la storia dei disertori è stata relegata ai margini? Minore interesse o censura?

Direi che la persona più adatta per rispondere a questa domanda non sono io ma la professoressa Bruna Bianchi che abbiamo invitato il 30 aprile ad un incontro al Teatro India insieme ad Attilio Scarpellini. Un incontro emozionante, partecipato, ricco di spunti, in cui la prof. Bianchi ha parlato proprio di una generazione silenziata.

C’è un altro storico, Mark Thomson che nella sua introduzione al libro La guerra bianca, Vita e morte sul fronte italiano 1915-19, parla di un episodio raccontato anche da Emilio Lussu in Un anno sull’altipiano, in cui gli austriaci, all’ennesima carica suicida degli italiani – in salita, sotto il fuoco nemico, senza alcuna speranza per nessuno degli “assaltatori” – smettono di sparare e iniziano a gridare agli italiani di fermarsi e tornare indietro. Thomson dice che di episodi del genere se ne contano circa mezza dozzina e, per quanto pochi, non sono avvenuti in nessun altro fronte della prima guerra mondiale. Lui scrive questo per dare il senso della particolare insensatezza, in primo luogo territoriale e militare, delle azioni comandate dai vertici militari italiani; e questo in un contesto dove davvero non si salva nessuno. C’è poi la durezza senza paragoni che l’Italia ha avuto nei confronti dei propri soldati, i peggio pagati, i peggio equipaggiati, nonché quelli che hanno subito il maggior numero di condanne per reati assimilabili alla diserzione, e gli unici che da prigionieri non ricevevano aiuti da casa. Le direttive di Cadorna per punire reati come la “codardia in faccia al nemico” spingevano gli ufficiali ad eseguire esecuzioni sommarie sul campo, senza processo, tanto che ancora oggi è difficile quantificare il numero di persone fucilate. Vi è poi il nodo dei rapporti fra le popolazioni slave e germanofone e di lingua italiana nelle zone contese tra Italia e Impero Asburgico, e il ruolo dell’Italia come esercito di occupazione in quelle terre. Infine c’è il primo regime fascista del mondo, il ventennio mussoliniano che ha fondato parte del suo consenso sul mito della grande guerra, mito che in parte ci portiamo dietro fino ad oggi. Da quando lavoro a questo spettacolo non faccio che notare monumenti ai caduti per la patria ad ogni angolo di strada, imbevuti di retorica.

Ecco, non so se ho risposto alla tua domanda. Io non mi riconosco nell’idea di celebrare questo centenario, versando qualche lacrima per quei “poveretti” che però vengono raccontati come se fosse tutto un fatto finito e risolto. Su questo suggerirei di leggere Giapil blog dei Wu Ming, o Cent’anni a Nordest, viaggio tra i fantasmi della “guera granda” di Wu Ming 1. Non c’è un modo solo di raccontare la storia, e non c’è un modo che mette tutti d’accordo. È come parlare degli “italiani brava gente”, un po’ cialtroni, un po’ “si fa quel che si può”, invece di parlare dei massacri compiuti dall’esercito italiano nelle colonie, dell’uso dei gas, della violazione di qualsiasi regolamento internazionale. Credo che per gli artisti rifuggire una narrazione consolatoria sia un dovere etico, o almeno io lo sento così. Ed è per questo che, proprio insieme al collettivo musicale Wu Ming Contingent faremo una serata allo Strike S.p.A. di Roma il prossimo 27 maggio, dove presenteremo Friendly Feuer insieme al loro reading concerto Schegge di Shrapnel.



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