Intervista a Gabriele Paolocà della compagnia VicoQuartoMazzini
In occasione della mediapartnership con il Teatro dell’Orologio di Roma, abbiamo intervistato uno dei protagonisti della stagione 2014-15: l’attore romano Gabriele Paolocà, fondatore insieme a Michele Altamura, Nicola Borghesi, Riccardo Lanzarone della compagnia VicoQuartoMazzini.
Quando ho scoperto che l’intervista che ero in procinto di fare si sarebbe svolta tramite Skype e non vis à vis, come invece avrei sperato, sono rimasta un po’ perplessa. Non sono una persona (ahimè!) che ama la sostituzione generale e così apparentemente ovvia, considerati i tempi, di alcune vecchie pratiche. La scrittura ha, per quanto mi riguarda, bisogno di alcuni elementi, da molti considerati desueti: la carta come supporto primario, sporcarsi con l’inchiostro le dita quando si prendono appunti e il poter guardare negli occhi l’interlocutore, spiare le sue movenze (ci sono cose che il corpo racconta meglio di qualsiasi parola). Alla vigilia della sopracitata chiamata su Skype, ero già convinta che avrei concluso il tutto un po’ delusa e con pochi spunti per scrivere. Invece Gabriele Paolocà, attore romano dalle qualità poliedriche, è riuscito a colmare la distanza che credevo ci sarebbe stata, forse perché avvezzo a questo genere di pratiche. Vi spiego meglio. Lo spettacolo dal quale ero reduce era Amleto Fx, visto al Teatro dell’Orologio. Prodotto da VicoQuartoMazzini, la compagnia di cui lo stesso Paolocà fa parte insieme a Michele Altamura, Nicola Borghesi, Riccardo Lanzarone.
Si tratta di un’originale rilettura del più classico e amato dei personaggi, del quale vengono prese in causa le qualità caratteriali. Amleto anima nera, solitaria, dubbiosa, problematica ed enigmatica, prigioniera del suo dolore notturno, dal quale non riesce a spogliarsi. Il principe di Danimarca viene catapultato nella nostra contemporaneità e il risultato è un grottesco pagliaccio, patetico e dolente, ironico e profondo, vicino al cuore per semplicità e verità.
Le maschere del dolore, i suoi stati d’animo, si manifestano sulla scena (una stanza dalla quale interagisce con il mondo) attraverso una conversazione Skype, una chat da social network, e il testo, mantenendo le vicende, si riempie di citazioni e di rimandi a grandi divi suicidi o a film da manuale. Non sapevo dove mi avrebbe condotta la conversazione, ma con Gabriele non è stato affatto una fatica divagare come se ci conoscessimo da molto tempo. Saranno stati i drammi generazionali condivisi o la propensione a dire, comunque, qualche sciocchezza per ridere, che ci hanno facilitato il compito. L’intervista si è trasformata in una piacevole, lunghissima chiacchierata tra amici e io non potevo che restituirla così.
Raccontami un po’, che stai facendo a Bologna?
Stiamo organizzando questo festival, che si chiama Festival 20 30. Una fondazione bancaria ha invitato qui quattro compagnie che verranno dal 19 al 30 Novembre, e ognuna di queste compagnie farà quattro giorni di laboratorio e uno spettacolo. Siamo nella fase organizzativa, stiamo cercando di portare gente. Stamattina siamo andati in un liceo e abbiamo fatto mille incontri, con mille studenti. Siamo molto soddisfatti perché i laboratori sono pieni, abbiamo addirittura la lista d’attesa.
Hai parlato di un noi… tu e la tua compagnia?
Noi, VicoQuartoMazzini, siamo in quattro in compagnia, questo è il primo spettacolo che faccio da solo, di solito siamo in tre o in quattro. Con loro ci siamo spostati in Puglia. In verità io sono un romano atipico. A vent’anni me ne sono andato da Roma e ho girato un po’ l’Italia. Abbiamo fatto due spettacoli Boheme! e Diss(è)nten. Poi è arrivato questo Amleto Fx.
Ci sono varie fasi nella vita, era il momento in cui mi sentivo che dovevo affrontare qualche cosa da solo; infatti è arrivata anche molta frustrazione, si vede anche nello spettacolo: quel personaggio che non si capisce quanto entra nell’Amleto e quanto esce da me porta in sé molta frustrazione e quel sano cinismo che mi manda avanti.
Prima di scrivere Amleto Fx, sapevi già che l’avresti diretto e anche interpretato? È nato, quindi, come progetto autonomo o strada facendo ti sei convinto di questa alternativa?
No, assolutamente. Devi sapere che io voglio fare tutto. Io devo saper fare tutto nella vita. Da una parte, sapevo già che sarebbe stata un’avventura che avrei affrontato da solo, anche per una questione economica. I ragazzi della compagnia erano tutti impegnati in giro per l’Italia, e non avrei potuto pagare nessuno. Ero chiuso nelle segrete dell’Orologio, a provare nella sala Artaud, che è quella al bagno a sinistra, invece lo spettacolo era al bagno a destra…
In tradizione gaberiana…
Esatto! Sono stato chiuso lì, due mesi da solo, e un certo punto ho detto: “Va be’, esco fuori! Chiamo Michele”, che è un ragazzo della compagnia, “gli chiedo se mi viene ad aiutare…” e così è stato! Infatti mi ha aiutato, è rimasto fino alla prima.
“Fx” sta per “effetti”. Che effetti che avuto su di te AmletoFx, questo spettacolo? Alla fine come ne sei uscito dopo questo felice periodo che hai passato all’Orologio?
Ne sono uscito molto positivamente, perché io sono un pessimista cronico. Mai mi sarei immaginato che sarebbe andato così bene e, chiaramente, essendo un pessimista, non è andato così bene, doveva andare meglio. Due cose importanti: innanzitutto, che il teatro è condivisione; ho capito che questo solipsismo ha portato a dei risultati, ma secondo me le cose insieme si fanno meglio. E questo è un grande traguardo; però, allo stesso tempo, questa solitudine, che mi ha portato a lavorare su questo testo, mi ha fatto capire che quando c’è un’urgenza forte e questa urgenza non riesce a mantenersi a un livello sottostante, ma proprio straborda, questa roba al pubblico arriva. Quello che fai passare attraverso il filtro di uno spettacolo, comunque, se è dentro di te, se tu lo senti, poi è inevitabile che anche lo spettatore lo percepisca. Questo è un grande insegnamento che voglio portarmi dietro, in tutti i prossimi lavori che andrò ad affrontare. Poi ho capito anche qual è il mio teatro: ho compreso questa formula del riso amaro, del far credere allo spettatore che sia arrivato il momento della risata e poi non dargliene modo, perché intervieni subito con un momento drammatico. Questo subbuglio che tu crei nello spettatore penso che sia la cosa che m’interessa di più. E poi penso che sia una cosa molto legata alla nostra tradizione, ci vedo molto di “magnanesco”, di “manfrediano”; insomma, di questi grandi personaggi che attraverso la risata facevano passare grandi drammi, grandi drammi sociali. Quindi ci devi fare i conti perché è roba che ti appartiene, insomma… sono molto italiano!
Quindi, deduco, che l’ironia sia fondamentale per te, per la tua lettura della società, della contemporaneità…
Beh, io penso che quello che manda avanti con grande fervore questo mondo è il fatto di saper ridere delle assurdità che ci accompagnano giorno dopo giorno. Il non capire mai il senso di quello che accade, secondo me, è molto più affrontabile attraverso il riso. Sì, io rido molto e mi piace far ridere le persone, in maniera genuina e non mascherando quello che c’è sotto. Riderne! Ridere di tutte le nostre piccole tragedie!
Questa interazione, con le nuove tecnologie, che tu hai utilizzato nel tuo spettacolo, credi che sia un elemento con il quale un artista, oggi, si debba in qualche modo confrontare o lo reputi semplicemente un linguaggio in più da sfruttare?
Dipende dallo spettacolo che stai facendo. Come hai detto tu, la mia è proprio un’interazione con il computer. Per me il computer è un personaggio, lo uso come tale. Quindi è questo elemento che rende lo spettacolo un dialogo e non un soliloquio. Nel testo Amleto manifesta il suo senso di solitudine attraverso l’interazione con altri personaggi; nella nostra società queste manifestazioni le abbiamo, principalmente, con questo aggeggio qui che sta collegando me e te adesso. Di conseguenza, è stata abbastanza diretta questa trasposizione dell’Amleto nel nostro mondo. La questione è questa: credo che per analizzare il nostro contemporaneo sia assolutamente fondamentale. Non sono uno che utilizza le nuove tecnologie… magari! E’ una cosa che avrei sempre voluto fare. Sono semplicemente uno che ha un Mac. All’inizio ero uno che si divertiva a fare dei video. Ho fatto diversi studi per avvicinarmi a questo Amleto: infatti ho fatto varie piccole versioni. In uno studio c’era proprio la proiezione in scena. Avevamo creato dei profili Facebook di Amleto e dei vari personaggi. Era molto inquietante, perché c’ero io che chattavo, da solo a casa, e facevo questi video. Avevo fatto anche dei video fenomenali di Amleto che cercava dei tutorial per imparare ad usare la spada. La telefonata della madre era veramente una telefonata Skype, che mi ero fatto io da solo con Photo Booth, con lo sfondo dietro del mare, con le onde. E quindi quest’aggeggio, in un modo o nell’altro, invadeva sempre tutte le idee che mi venivano. C’è stato fin dall’inizio, guarda! Alla fine l’idea di questa voce, a rappresentare quello che vedevo nello schermo, mi ha dato una sensazione molto più alienante: cioè, piuttosto che far vedere quello che accade, una cosa interessante, secondo me, è dare l’idea di quello che sta accadendo veramente. Il senso d’alienazione da questo punto di vista era molto più forte. Però, ripeto, il computer è semplicemente un personaggio nel mio spettacolo. Non riesco ad elevarmi ad uno che utilizza le nuove tecnologie. Vorrei, ma non posso.
Senti, vorrei tornare sulla questione legata al gruppo, alla vostra compagnia, perché mi interessa molto il fatto che voi lavoriate insieme, in maniera continuativa, da parecchio tempo, nonostante questa tua esperienza solitaria, come l’hai definita, di Amleto Fx, in un periodo che comunque ci vede un po’ devoti alla mercificazione, al consumo rapido del bene materiale, che si estende pericolosamente sul bene artistico. Si tratta anche un po’ di difendere ciò che si crea, difenderlo e portarlo avanti, per andare contro questi meccanismi barbari di produzione e consumo. Quindi, quali sono i modi per difendere le proprie creazioni e quanto, in questo, è importante essere in un gruppo?
Secondo me, entrarci dentro. Dobbiamo entrarci e riuscire a capire come trarne economia, altrimenti l’anno prossimo smetto. Assolutamente, entrarci dentro e mantenersi puri. Quindi tu mi dirai: “E come si fa?”. Ti posso dire qualcosa a proposito del prossimo spettacolo che stiamo preparando. Abbiamo raccolto una sfida lanciatada molti critici, ultimamente, da Cordelli a Porcheddu. Il tema era: perché le giovani compagnie si ostinano a voler scrivere, a voler portare la propria poetica quando non se ne hanno, quasi, le facoltà? Perché non mettersi a confronto anche con dei classici (ma non alla maniera coi cui ho affrontato io l’Amleto che l’ho proprio distrutto)? Perché non mettersi mai nella condizione di poter essere considerati dei sostituti validi al Lavia di turno, al Branciaroli di turno? Sicuramente: “Perché non abbiamo tutti quei contatti politici” è la prima risposta che ti viene in mente; la seconda: “Sono grandi impegni produttivi”; e la terza risposta è “Ok, lo faccio!”. Infatti, il prossimo spettacolo in stagione all’Orologio di VicoQuartoMazzini sarà Sei personaggi in cerca d’autore. Abbiamo deciso di affrontare un testo ostico, un autore ormai trito e ritrito, quasi improponibile, però è il nostro autore di riferimento. Pirandello lo odi e lo ami perché sicuramente, a primo impatto, l’idea che ti dà è il fatto che sia un autore che non permette nulla, cioè, devi rispettarlo, farlo tale e quale, con la pausa che deve essere in quel momento. E con Pirandello la nostra sfida è rispondere, appunto, a questa proposta fatta dai critici ultimamente, però alla nostra maniera. Infatti la sfida sarà mantenere il Pirandello, magari intervenire sul testo, semplicemente utilizzando un italiano più contemporaneo (ma nulla di più), e allo stesso tempo, però, stravolgerlo alla nostra maniera. Ci sono dei calcoli strategici che una giovane compagnia deve fare. Sicuramente proveremo a fare dei matinée. Sicuramente c’è grossa crisi e bisogna capire come continuare a fare questo lavoro che è importante e fondamentale.
Un’altra risposta è questo festival, Festival 20 30. È un festival che ha una tematica generazionale e vuole affrontare il mondo dei ragazzi tra i venti e trent’anni. Ci viene sempre detto che siamo dei fannulloni, gente che non ha voglia di fare nulla, ma non ci viene mai chiesta la nostra opinione a riguardo. La domanda che si pone il festival è: “Cosa faranno i 20/30 nel 2030?” Poniamo questa domanda a noi, prima di tutto, e cerchiamo di porla ai ragazzi che parteciperanno a questo festival: per far capire che il teatro è uno strumento fondamentale, alla base dell’analisi della nostra società, che è una forza. È anche importante preparare un pubblico alla sperimentazione che fanno le giovani compagnie di adesso. Fargli capire che non è così lontana, distante. Il teatro che facciamo noi ha una comprensione molto chiara e diretta, lavora nel codice della sperimentazione, dell’assurdo, ma utilizzando immagini e simbolismi che ci appartengono. Certo, bisogna saperlo fare, quello sì, però non si sta facendo l’opera per marziani. Questo festival, fortunatamente, è totalmente gratuito. Per noi l’utopia è poter dire al pubblico di venire a teatro, gratis; chiedere una possibilità al pubblico, una chance, fiducia per costruire insieme un futuro. Quindi c’è l’utopia da una parte – come per questo festival – e dall’altra i discorsi più strategici che sono quelli che ci portano a fare il Pirandello.
Il prossimo appuntamento è previsto per il 29 novembre, negli spazi dell’Oratorio San Filippo Neri, a Bologna, ore 21.00: spettacolo Boheme! e finale di laboratorio a cura di VicoQuartoMazzini.